Una delle sfide più laboriose per un regista è trovarsi faccia a faccia con un film, di grossa produzione, basato su una vicenda storica, narrata mantenendo una certa fedeltà.
Il problema non sta tanto nel principio di fedeltà al fatto narrato, ma, principalmente, nella credibilità. La scelta delle scenografie, dei costumi, dei dialoghi [per non parlare della scelta degli attori, che, dando per scontato che siano professionali, dovrebbero in qualche modo somigliare quanto più possibile ai personaggi interpretati], deve essere quanto più possibile attinente al contesto, onde evitare critiche feroci alle quali non saper rispondere. Non è certo questo il caso de L’ultimo imperatore, di Bernardo Bertolucci, anno 1987.
Vincitore, solo per citare i principali riconoscimenti, di ben 9 premi Oscar, 4 nastri d’argento, 9 David di Donatello, 4 Golden Globe, 3 premi Bafta, L’ultimo imperatore fa parte di quella categoria di film che non si dimentica, perché colossale, corposo, straordinariamente affascinante. Merito certo di una regia molto abile, perché capace di alternare, in modo da non dare mai l’idea di staticità, le glorie e il declino memorabile di un imperatore, Pu Yi, vittima di un sistema che ha compromesso per sempre la sua esistenza, costringendolo ad una vita da passerotto in gabbia, chiuso tra le mura della Città Proibita. A ciò si aggiunge lo sforzo del regista di cercare di dare una forte impronta emotiva al film, che infatti si copre di una veste toccante molto comunicativa. Bertolucci, insieme con Mark Peploe [che ha curato la sceneggiatura, sempre per Bertolucci, de Il piccolo Buddha], firma anche la sceneggiatura del film, sapientemente bilanciata tra il linguaggio di corte, mai troppo aulico, e il linguaggio familiare di Pu Yi con le sue due consorti. La scenografia, curata da Ferdinando Scarfiotti, la fotografia di Vittorio Storaro, i luminosi costumi d’epoca di James Acheson, e l’incalzante colonna sonora di David Byrne, Ryuichi Sakamoto e Cong Su, completano il film, rendendolo perfetto e spettacolare.
Il film ripercorre le tappe più significative dell’imperatore cinese Aisin Gioro Pu Yi [John Lone], figlio del principe Chun, dalla sua incoronazione, nel 1909, all’età di soli tre anni, fino alla sua detenzione nel carcere di massima sicurezza di Fushun, dove sono detenuti criminali di guerra, nel nord della Cina. Sono perciò narrate le vicende cardine che hanno interessato la Cina, dal moto rivoluzionario che la colpì nel 1912, sancendo la nascita della Repubblica, ma concedendo comunque all’imperatore di dimorare all’interno della Città proibita con i suoi uomini di corte [il popolo, infatti, non può e non deve oltrepassare la soglia], fino all’occupazione giapponese della Manchuria, ribattezzata Manchukuo, nel 1931, con a capo sempre Pu Yi. È questo il momento culminante che segnerà la fine della carriera imperiale di Pu Yi, il quale, sentitosi tradito dal suo popolo, che non ha impedito l’occupazione giapponese, si allea con essi, sperando così di risollevare le sorti dell’impero. In realtà ben presto si accorgerà di essere una marionetta nelle mani degli invasori, e, mentre, nel 1945, fugge verso l’Europa con la speranza di nascondersi, viene invece arrestato dai russi, con l’accusa di essere un criminale, un controrivoluzionario e un traditore, come gli verrà comunicato durante l’interrogatorio tenutosi all’interno di un istituto sovietico di Khabarovsk, prima del suo inserimento nella prigione cinese, dove incontrerà suoi vecchi collaboratori.
Una volta dentro, Pu Yi, che ha da sempre goduto di particolari privilegi, si ritroverà di nuovo circondato, suo malgrado, da grosse mura divisorie col mondo, sempre per volontà altrui. Qui, però, ritroverà la sua personalità, e avrà modo di riflettere sulla sua non vita, succube di un sistema che lo onorava per le sue veste imperiale, ma che non gli permetteva di prendere decisioni di sorta, poiché hanno sempre deciso gli altri per lui. Dirà infatti: “Io non sono un gentleman, a me non è permesso dire quello che voglio, sono sempre gli altri che mi dicono cosa dire”.
Nonostante ciò, però, Pu Yi è ancora considerato un imperatore riformista, seppur in piccola percentuale, e il merito va a Mr Fleming Reginald Johnston [Peter O’Toole], nominato suo precettore nel Maggio del 1919, che porterà una ventata di modernità all’interno della Citytà proibita, ad esempio smontando il pregiudizio secondo cui un imperatore non può portare gli occhiali, perchè il problema di vista era considerato un difetto, e l’imperatore, essendo una creatura divina, “il divino figlio del cielo”, non può avere difetti, neanche se di natura visiva.
Tutti gli accadimenti descritti nel film, siano essi inerenti alla vita prettamente privata di Pu Yi, o volti a descrivere più specificatamente la storia cinese, sono riportati nel film con una naturalezza che non pecca di laboriosità e neanche di monotonia. Il ricorso ai particolari, oltretutto, arricchisce il film e vizia lo spettatore nella sua curiosità di apprendere nuovi contenuti e dettagli.
Molta attenzione è dedicata al matrimonio di Pu Yi con le sue due consorti: Wan Yung [Joan Chen], sua prima moglie, e Wen Hsiu [Vivian Wu], sua seconda moglie. Molto delicata, e studiata in modo da risultare sobria e nello stesso spettacolare, la scena del rapporto sessuale a tre che viene consumato sotto le lenzuola. Allo spettatore non è dato vedere nudità, ma il gioco con cui i tre corpi muovono le lenzuola è evocativo. La pazzia di Wan, rimasta sola dopo la dipartita di Wen, che ha compreso l’entità dei pericoli di cui potrebbe essere vittima, è un altro momento molto alto del film, perché tratteggiata meticolosamente. Notevoli sono le scene più struggenti della sua infermità mentale, dall’ingestione dei petali di rosa, durante un’importante serata trascorsa nel palazzo imperiale dell’imperatore Hirohito, che riceve Pu Yi, agli sputi nei confronti di tutta la corte, fino al faccia a faccia con Pu Yi, drammatico, che vede i due, inermi, di fronte per l’ultima volta.
Bertolucci ha prestato molta attenzione alla personalità dei suoi personaggi, che è l’arma vincente, perché a venire fuori, per ciascuno di essi, è una psiche complessa, che, se tende ad evidenziare la diversa indole di ciascuno di essi, dall’altra, però, ha un unico comune denominatore: tutti, infatti, sono schiavi di una vita che li ha privati di libertà. Lo stesso precettore, interpretato da uno straordinario O’Toole, è rinchiuso nei canoni del suo ruolo di educatore, a cui non può disobbedire. Alle due presenze femminili, fondamentali nella vita di Pu Yi, Chen e Wu, si affianca la bellissima Jade Go, nel ruolo di Ar Mo, la balia.
L’ultimo imperatore, distribuito da Videa-CDE e Eagle Pictures, è uscito lo scorso marzo in una nuova edizione completa di contenuti speciali, che contiene uno speciale postcard stile documentario sul paesaggio cinese, sul suo popolo e le sue bellezze storiche, più il trailer.
Gilda Signoretti
Regia: Bernardo Bertolucci
Con: John Lone, Peter O’Lone, Joan Chen, Vivian Wu
Durata: 156’
Formato: Univisium 1:2
Audio: Italiano Dolby Digital 5.1, Inglese Dolby Digital 5.1
Distribuzione: Eagle Pictures [www.eaglepictures.com]
Extra: Speciale postcard dalla Cina, Trailer originale