La mansarda di una casa tardo vittoriana. L’arredamento tradisce una natura tutt’altro che popolare. Al suo interno, tre bambine giovano a far le donne: fingono di versare del liquido da una piccola teiera di porcellana, per poi servirlo a inespressive bambole col viso fatto dello stesso materiale.
L’atmosfera infantile, d’un tratto, perde dinamicità e si congela: le tre bambine si voltano verso lo stesso punto ed iniziano ad osservare il nulla. Bastano pochi secondi: la teiera cade a terra, frantumandosi, le bambole vengono calpestate dai piccoli piedi delle bambine, alzatesi di scatto e tutte dirette verso il medesimo punto, la grande finestra a tre ante.
Come in trance, una delle piccole gira la maniglia, apre il portello, e sale sul cornicione, seguita dalle altre due. Ancora un momento e le tre bambine si lanciano nel vuoto, senza tradire paura o altre emozioni.
E’ questo l’ottimo incipit di The woman in black [2012], di James Watkins, film sostanzioso per almeno tre motivi: perché riporta la ghost story al territorio e alla temporalità che le è più congeniale, allontanandola dagli appartamenti ricolmi di videocamere dei vuoti e insignificanti Paranormal Activity; perché rappresenta il ritorno in carreggiata della storica Hammer,; e perché, in sostanza, è il primo tentativo importante di Daniel Radcliffe di scrollarsi di dosso il personaggio del maghetto con gli occhiali, cosa che gli riesce davvero bene.
Arthur Kipps [Daniel Radcliffe] è un giovane avvocato londinese che, per ragioni di lavoro, deve recarsi nel lontano villaggio di Crythin Gifford, per sbrigare alcune questioni legali relative ad una grande magione, la Eal Marsh House, la cui proprietaria è recentemente deceduta.
Affidato il piccolo figlio alla nutrice, Kipps si calerà in un mondo totalmente differente da quello freddo e razionale a cui è abituato, un mondo fatto di paura e di “non visto”, dove il susseguirsi di premature e violente morti di molti dei bambini del villaggio sembra esser essere collegato a dei fatti di sangue precedentemente accaduti proprio nella casa su cui Kipps sta lavorando.
Il giovane avvocato dovrà lottare contro la paura primitiva che congela gli autoctoni all’interno delle loro assurde credenze, prima di riuscire a mettere a fuoco ciò che davvero si nasconde all’interno di quella casa costruita nel mezzo della zona palustre, per riuscire a concludere la sua indagine prima che il figlio lo raggiunga in paese per il weekend, rischiando di unirsi alle fila dei bambini violentemente deceduti.
The woman in black è un film in cui aleggia un senso di già visto, ma, stranamente, proprio in questo trova la sua forza. Proprio nell’essere profondamente riconoscibile, a scapito di un’atmosfera classica ma avvolgente, una paura “abitudinaria”, familiare. Non per niente il film è tratto dal romanzo gotico La donna in nero, dell’autrice Susan Hill, del 1983.
Il senso di confidenzialità viene arricchito da una maniacale cura dei particolare, primissimi piani di bambole e pupazzi, dettagli minuziosi, morbosamente affascinanti.
Buona anche la tematica principe del film, la privazione della maternità, che muove le mosse del fantasma vendicativo, colpisce le madri delle giovani vittime e si rispecchia al rovescio nel protagonista e in suo figlio, che perdono moglie e madre proprio durante il parto.
Una ghost story in stile classico, decisamente in stile con Hammer. Una paura tradizionale, che sa di buono.
Luca Ruocco
Regia: James Watkins
Con: Daniel Radcliffe, Ciarán Hinds, Janet McTeer, Liz White
Uscita in sala in Italia: sabato 3 marzo 2012
Sceneggiatura: Jane Goldman
Produzione: Hammer Film, Talisman, Exclusive Media Group
Distribuzione: Videa-CDE
Anno: 2012
Durata: 95’