Perché tornare a parlare di un romanzo che ha già raggiunto l’immortalità dei classici?
Perché puntare una torcia su qualcosa che rimarrà per sempre illuminato?
Puntare sul cavallo favorito potrà sembrare una falsa scommessa, ma la cosa può essere, in realtà, molto rischiosa.
Dorian Gray è un cavallo letterario dal curriculum invidiabile, e trasporlo in immagini non è certo un lavoro semplice, anche se a farlo è un affezionato dell’opera di Oscar Wilde come Oliver Parker.
Il regista ha, infatti, già curato, assieme al produttore Barnaby Thompson, gli adattamenti cinematografici de “L’importanza di chiamarsi Ernesto” e “Il marito ideale”.
Con “Dorian Gray”, che all’inizio avrebbe dovuto vederlo solo nelle vesti di produttore, Parker punta per la terza volta sulla sua affinità letteraria con l’opera dell’autore irlandese.
Toby Finlay, alla sua prima sceneggiatura ufficiale per un lungometraggio, firma l’adattamento dal romanzo di Wilde, mirando sornione ad una virata verso il cinema di genere.
Il regista, infatti, sembra avere tutte le intenzioni di trasformare il suo Dorian Gray in un horror gotico, e Oliver Parker non è affatto un novizio all’interno del Genere, avendo collaborato per anni con Clive Barker nella Dog Company [che si occupava di show dal taglio spiccatamente horror], e avendo esordito come attore cinematografico in Hellraiser [sempre di Barker].
Ma l’esperimento di ibridazione non riesce.
L’errore non sta tanto nell’aver pensato a Il ritratto di Dorian Gray come ad un possibile horror gotico [è palese che la storia di Wilde abbia delle chiarissime reminiscenze faustiane], quanto nell’essersi accostato al genere in maniera troppo poco convinta [e convincente].
Quasi avesse solo cercato di accaparrarsi la grande fetta di pubblico adolescenziale, appassionato di film emo-dark, in stile Twilight.
Molto riuscita la scelta della coppia di attori protagonisti: Ben Barnes e Colin Firth, rispettivamente nei ruoli di Dorian e del suo mentore Henry Wotton.
Un rapporto di coppia, quello fra i due attori, basato su perfetti giochi di disequilibrio.
Inizialmente un Dorian, giovane e puro, è in balia del lussurioso e gaudente Wotton, che lo spinge sulla via del piacere e del peccato; nella seconda parte [che differisce da quella del romanzo], Gray è cresciuto e ormai avvezzo ad una vita lasciva e irresponsabile, anche se identico fisicamente, mentre Wotton è invecchiato e divenuto più responsabile grazie alla nascita di una figlia, ora ventenne: Emiy [Rebecca Hall].
La giovane si innamora, immancabilmente, del giovane dannato, preparando la scena ad un finale pirotecnico. Il film, d’ambientazione vittoriana, potrebbe rispolverare alcune riuscitissime opere filmiche targate Hammer, ma riesce, solo in alcuni casi, a rivangare la lussuria elegante e patinata del “Dracula” di Coppola.
Cesellato di aforismi wildiani, il film va avanti per inerzia, come se agli autori rimanesse un colpo inceppato in canna, un’idea che avrebbe potuto rivalutare il tutto.
Nel finale, quando il Gray orrendo e deforme del ritratto si scontra [e si fonde] con quello reale, la tensione non sale e, rimanendo in tema di ritratti diabolici, si arriva a rimpiangere quello di Vigo, principe dei Carpazi, in Ghostbusters 2.
Perché mettere in scena uno dei romanzi più conosciuti della storia della letteratura inglese, senza cercare di apportare in maniera costruttiva qualcosa di personale, di nuovo?
Tutto è già detto, già sentito. E le poche aggiunte non convincono.
Peccato, perché, come scrisse lo stesso Wilde: “l’unica cosa che valga la pena di fare oggi, è l’essere moderni”.
Luca Ruocco
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DORIAN GRAY
Regia: Oliver Parker
Con: Ben Barnes, Colin Firth, Rebecca Hall
Sceneggiatura: Toby Finlay