Lobos de Arga e la Commedia Mannara
É ormai un dato di fatto che i morti viventi siano riusciti a candidarsi come nuove icone del monster movie del nuovo millennio, cavalcando dapprima il filone della horror comedy, per poi arrivare a fondare, per sovrappopolamento di titoli, un sotto-filone tutto loro: la zomedy.
Pur senza mettere da parte le atmosfere apocalittiche, le epidemie virali, la piacevole tendenza al gore, accentuata dall’insaziabile fame cannibalica con cui i cari estinti risorgono dalla tomba, i living dead si sono riscoperti fini umoristi e ottimi intrattenitori.
Se all’apice della piramide di titoli si staglia ancora, irremovibile, L’alba dei morti dementi di Edgar Wright, tutt’intorno è un brulicare di film che testano, in maniera più o meno riuscita, la vena comica degli zombi. La lista è davvero lunga; basti ricordare che si va da Maial Zombie – Anche i morti lo fanno [Mathias Dinter, 2004] a Benvenuti a Zombieland [Ruben Fleischer, 2009], da Deadheads [Brett Pierce, 2011] a Juan de los Muertos [Alejandro Brugués, 2011], fino ad arrivare ad esperimenti di natura indie come World makes zombies, web serie creata in Italia dal Leonardo Cruciano Workshop.
Ma i cadaveri antropofagi sono le uniche figure horror ad essere riuscite a riciclarsi su palcoscenici più spensierati?
A ben pensarci, vampiri, mummie, mostri di Frankenstein, creature extraterrestri o mutanti, si sono concessi più di una volta un’allegra vacanza all’interno di commedie e parodie, pur senza arrivare a creare una vera e propria moda, come quella messa in atto dai morti viventi.
E il Lobos de Arga [2011] di Juan Martínez Moreno, ancora inedito in Italia, se si eccettua il fortunato passaggio al 32° Fantafestival, ci riporta alla mente che esiste anche un piccolo filone di film dagli intenti più o meno comico/grotteschi, che abbraccia il mondo dei licantropi.
Il lupo mannaro è la rappresentazione della doppiezza umana, il sipario alzato sull’animalità che ne comanda gli istinti. Il licantropo è un chiaro ritratto dell’uomo senza regole che si abbandona alla riscoperta dei bisogni basici del mondo scatologico, fatto di continui rimandi al sesso, al sangue, all’atto di cibarsi; atti che si vanno a ricollegare, antropologicamente, all’istintiva risata incontrollata, liberatoria, carnevalesca.
Si ride dell’animalità, della bestia che ci dorme sottopelle aspettando di essere liberata, in occasioni di osceni baccanali pantagruelici.
Lo capisce per primo John Landis in quello che rimarrà in eterno uno dei capisaldi del cinema mannaro: Un lupo mannaro americano a Londra [1981], film in cui Landis mescola sapientemente elementi di commedia popolare, esaltata da sublimi momenti nonsense, ad una trama horror con rimandi al monster movie più classico, inquadrato con uno sguardo fresco e moderno.
Se è pur vero che prima di questo vi erano stati altri film che avevano inserito il personaggio del licantropo all’interno di una struttura da commedia [pensiamo a Il cervello di Frankestein, del 1948, in cui i comici Gianni e Pinotto incontrano Dracula, il mostro di Frankenstein e l’uomo lupo], è altrettanto innegabile che Landis per primo intuisce, come verrà per certi versi ripreso nella zomedy, che la risata del/col lupo mannaro debba venire dal basso, partire dalle viscere, le stesse viscere che il mutaforma, tra una gag e un’altra, divora voracemente ancora fumanti.
Un lupo mannaro americano a Londra traghetta la figura del licantropo all’interno di una habitat del tutto non naturale, ma riesce a farlo in maniera organica, azzerando il senso di decontestualizzazione. Il target generazionale dei protagonisti riesce a mantenere il livello comunicativo su una fascia giovane, nuova, pur senza scadere nell’ambito del teen, come invece faranno diversi titoli che andremo ad affrontare di seguito.
La spensieratezza di due giovani turisti americani nella brughiera inglese è troncata di netto dall’ingresso dell’elemento horror: un grosso lupo feroce uccide uno dei due, Jack [Griffin Dunne], e ferisce l’altro, David [David Kessler], che verrà ricoverato in un ospedale di Londra.
Come da tradizione il morso del licantropo sarà marchio e condanna per il giovane superstite, che da quel momento in avanti, in balìa dei cicli lunari, lascerà la sua forma umana per abbandonarsi ad efferate battute di caccia all’uomo nella capitale britannica.
Se il film entra nella storia per la storica sequenza della trasformazione architettata da Rick Baker, un vero momento di rottura tra quello di Landis e i film sui licantropi che lo avevano preceduto, proprio grazie al carattere esplicito e crudo, è pur vero che, come racconta il regista, lo script restò per anni nel cassetto proprio a causa della sua doppiezza: troppo pauroso per essere una commedia e troppo divertente per essere un horror.
La comica complicità tra i due amici continua, ad esempio, anche dopo la dipartita di Jack, che continua ad apparire agli occhi di David come un cadavere, in stato di putrefazione sempre più avanzata. Come un grottesco stalker, l’anima in pena continua a suggerire all’amico di sempre di togliersi la vita, per evitare di spargere il sangue di persone innocenti nelle notti di plenilunio, ma il modo e i luoghi in cui queste visioni prendono piede, trasformano la triste comunicazione col defunto in riusciti episodi puntellati da un macabro senso del grottesco.
Elementi di commedia sono rintracciabili anche nell’immaturo Un lupo mannaro americano a Parigi [1997], di Anthony Waller, che firma anche la sceneggiatura insieme a Tim Burns e Tom Stern.
Ripresa alla larga la struttura del predecessore, Un lupo mannaro americano a Parigi racconta di un gruppo di giovani turisti americani in vacanza nella capitale francese. Sulla Tour Eiffel, i giovani incontrano Serafine [Julie Delphy], una misteriosa e affascinante ragazza intenzionata a suicidarsi. Andy [Tom Everett Scott] riesce a salvarla e tra i due scocca il colpo di fulmine. L’inaspettato incontro coincide, però, anche con l’ingresso dei tre turisti all’interno di un mondo suburbano fatto di licantropi che popolano le notti parigine e considerano i propri concittadini umani come una sorta di infinita scorta di cibo fresco.
La riuscita amalgama di humour nero e horror realizzata da Landis perde subito gran parte del mordente, e la storia ambientata nei sobborghi parigini scade sotto il peso di una commedia di matrice adolescenziale di bassa lega travestita da horror. Un film assolutamente dimenticabile, pur se condito con gli stessi elementi: dalla goliardia amicale all’innamoramento, dal ricovero in ospedale alla condanna infetta dal morso ai cadaveri parlanti. Ma se l’idea di un’intera comunità di lupi mannari che popola Parigi, sfruttandone linee fognarie e brutti locali non è male, trasformazione e realizzazione delle creature non reggono di certo il confronto.
Tutt’altro genere di storia quella alla base del dittico Voglia di vincere [Rod Daniel, 1985]: il mood è ancora quello del teen movie, ma l’atmosfera è marcatamente quella degli anni ’80, con un Michael J. Fox agli apici come protagonista e la decisione di virare il tema “licantropia” in ambito esclusivamente comedy, abbandonando del tutto le radici orrorifiche, sono elementi che fanno la differenza.
Il giovane Marty Howard [Fox], classico studente un po’ imbranato di una ancora più classica High School americana, scopre di essere un licantropo. La sorpresa è amplificata da fatto che, subito dopo avere subito gli inumani dolori dovuto alla muta, il ragazzo-lupo scopre che la licantropia è un fattore del tutto ereditario, e anche il padre gli si rivela nella sua vera natura.
La licantropia di Voglia di Vincere [così come poi sarà per il secondo capitolo] non ha niente a che fare con l’omicidio e la fame di carne. La ferinità del mannaro, se da lato estetico potrebbe ricordare da vicino il look di un uomo-bestia da classico freak show, accentua le potenzialità psico-fisiche in positivo, trasformando l’impacciato Marty nel più popolare e invidiato studente della scuola, tombeur de femmes e campione di basket.
La commedia vola spensierata su temi come l’auto-accettazione e la paura del diverso, e le problematiche delle metamorfosi adolescenziali sono sublimate nella trasformazione fisica in uomo lupo, così come avviene nell’aspirante copia carbone Voglia di Vincere 2 [Cristopher Leitch, 1987]. Stavolta il giovane mannaro è Todd [Jason Bateman], un parente di Marty, ammesso al primo anno di università con un borsa di studio riguardante le attività sportive. Sorvolando sulla piacevolezza della commedia, il senso di già visto ovviamente regna sovrano, e a nulla servono lievi differenze come l’età leggermente più matura del protagonista e il cambiamento dello sport praticato [dal basket alla boxe].
Qualcosa in più, invece, la racconta l’ennesima variazione sul tema: Teen Wolf [2011], serie televisiva composta ad oggi da due stagioni da dodici episodi cadauna e da una terza di ventiquattro. La serie, ideata da Jeff Davis, recupera il titolo originale dei due Voglia di Vincere, e ne rispetta a grandi linee i temi fondamentali [un giovane protagonista imbranato in amore e nello sport e il suo cambiamento innaturale].
Ma, mutuato anche da una filmografia in fermentazione, il Teen Wolf televisivo recupera da un lato l’atmosfera romantica e sentimentale degli attuali emo-horror alla Twilight, per poi calare la storia del ragazzo-lupo nel contesto di una serie horror. La licantropia di Scott McCall [Tyler Posey] non è più dovuta ad un fattore ereditario, ma al classico morso di un licantropo, inferto in un incipit che ha un po’ il sapore di una sorta di omaggio al classico di Landis, e le doti mannare acquisite dopo una veloce convalescenza acuiscono sì le doti psico-fisiche del giovane, ma oltre ad accentuarne il savoir faire con il gentil sesso e le capacità atletiche, lo trasformano in un uomo-bestia aggressivo e vigoroso, istintivamente propenso verso la violenza e l’omicidio. Mettiamo in chiaro, niente di eclatante, ma qualche accenno gore e un controcanto horror fanno da riconoscibile leitmotiv, e bilanciano il lato più melenso. Il lato comedy è tutto puntato sulle baruffe scolastico-sportive del giovane Scott, bellamente coadiuvato dall’amico nerd Stiles Stilinski [Dylan O’Brien], oltre che sul solito gioco di metamorfosi-primi pruriti sessuali [leggasi ancora una volta pubertà].
Di giovani e licantropia troviamo ancora bei riferimenti nello Scuola di Mostri [1987] di Fred Dekker e nel Cursed – Il Maleficio di Wes Craven [2005]: nel primo un gruppo di giovanissimi acchiappa-mostri dovrà vedersela con la completa reunion dei classici mostri della filmografia horror decisi ad impadronirsi di un misterioso amuleto e del diario di Van Helsing, prima, e del mondo intero, poi. Nell’altro, invece, Craven snocciola, assieme allo sceneggiatore di Scream, Kevin Williamson, l’intero corollario dei teen licantropici: questa volta, al centro della metamorfosi mannara, due fratelli, Ellie [Christina Ricci] e Jimmy [Jesse Eisenberg]. Ancora una volta è proprio il lato teen a trascinare quello comedy, basando il tutto su problemi adolescenziali e di cuore, che qui si allargano alle ricerche di Jimmy sui segni più concreti di una trasformazione imminente, sospese tra internet e libri di tradizioni popolari, per uno dei meno personali film del regista di Nightmare.
E quando si parla di commedia e licantropi, in Italia, non si può prescindere dall’includere in elenco anche Marco Antonio Andolfi, regista-sceneggiatore-effettista-protagonista de La croce dalle sette pietre [1987], conosciuto anche come La camorra contro il lupo mannaro.
Pur non trattandosi propriamente di un licantropo, ma del figlio di un demone scimmiesco dal nome di Aborym, Marco Sartori [Andolfi sotto lo pseudonimo di Eddy Endolf] sottosta un po’ a tutti i canonici cliché dell’uomo vessato dall’implacabile condanna. Un gruppo di mariuoli gli scippa la collana non appena egli mette piede fuori dalla stazione di Napoli, ignorando, però, che senza la croce gemmata al collo, Sartori, allo scoccare della mezzanotte, non può più trattenere la sua essenza semi-diabolica e prende la forma di un erculeo demone, completamente glabro su tutto il corpo palestrato, ad eccezione di un volto-criniera da uomo-leone, e di un set di peli irsuti su mani-piedi-pube.
Il demone-Andolfi non si ciba delle sue vittime, ma le fa fuori in modo cruento e grottesco trasportato dal male che gli alberga dentro, che lo porta, volente o nolente, a sgominare un intero ramo camorristico del napoletano: una maga un po’ meretrice, un ricettatore e compagnia bella. La croce dalle sette pietre è un titolo molto noto tra gli amanti degli scult italici, anche per l’amalgama di generi che il suo autore frulla al suo interno: si va dal poliziottesco al camorra-movie, dall’erotico all’horror, dal fantasy alla commedia [volontaria e involontaria].
Andolfi ridona vita al demone Aborym e al suo figlioccio Sartori in un sequel: Riecco Aborym [2007], gli anni son passati, ma il crine dell’uomo-leone è ancora fulgido, e il regista-attore si ripropone nella parte che gli donò eterna vita cinematografica.
Il giro nella commedia mannara si conclude là dove era iniziato: il Lobos de Arga di Juan Martínez Moreno, che ripropone il duetto licantropia-commedia in una salsa tutta nuova.
Abbandonata del tutto la deriva teen, Martínez Moreno [anche sceneggiatore del film] racconta la storia di Tomas [Gorka Otxoa], un giovane scrittore in crisi che fa ritorno in Galizia, nel paese natale della sua famiglia, credendo di dover ricevere un premio alla carriera. Il ragazzo ignora del tutto che la vera ragione dell’invito gira intorno ad un’antica leggenda che lo vuole al centro di una maledizione che da oltre cento anni pare abbia colpito il villaggio.
Il regista-autore rimette in vetrina tutti i cliché stra-conosciuti dagli amanti del genere [dal morso come veicolo di contagio, alle tradizioni popolari, alla luna piena, all’intolleranza all’argento…], e ibrida sapientemente horror e commedia grazie, innanzitutto, ad uno script impeccabile, che di gag in gag mette irrispettosamente alla berlina il cinema di genere e i vari aspetti di una cultura bigotta e reazionaria, ineccepibile satire dell’humus culturale tanto caro alla dittatura franchista.
Riuscita anche la realizzazione del costumoni old-school dei licantropi di Lobos de Arga, simili, più che a dei lupi, ad una sorta di grotteschi e voraci gorilla, ma non per questo meno pericolosi.
Il film si muove su livelli davvero alti e, anche se in patria non sembra aver attecchito, avrebbe tutte le carte in regola per essere, a fronte di una capillare distribuzione, punto di partenza per una nuova era della monster-comedy. Zombi permettendo.
Luca Ruocco
[saggio breve già pubblicato su “Horror Project Magazine” dei mesi di novembre/dicembre 2012]