All’interno della quinta puntata della nostra rubrica dedicata al mondo degli sceneggiatori, Tales from the Script, vogliamo presentarvi [o meglio vogliamo che si presenti a voi lettori di InGenere Cinema], la persona che ha co-firmato gli script di entrambi i film di Federico Zampaglione.
Stiamo parlando di Giacomo Gensini… Lasciamo spazio al suo racconto…
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Raccontare il mio approccio con la sceneggiatura non è semplice, forse per questo non ho mai provato a farlo, fin ora. Naturalmente come tutti gli appassionati di cinema avevo comprato una economicissima videocamera, vedevo centinaia di film ed avevo tentato di buttare giù un cortometraggio.
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Ma nulla di concreto era mai accaduto, ne mai sarebbe accaduto probabilmente, se nel giugno del 1999, a ventotto anni, non fossi partito come volontario umanitario per Valona, in Albania, con la Missione Arcobaleno.
C’era la guerra del Kosovo ed io avevo preso accordi con il giornale di Ostia per mandare articoli da corrispondente non pagato, perché la scrittura era per me, nella mia testa, un tutt’uno con il cinema, aggrovigliato e confuso. Fino a pochi mesi prima avevo lavorato in aeroporto, molto poco soddisfatto di me e la scelta di licenziarmi era stata come spingermi a camminare sulla corda ma senza una rete sotto.
Dovevo farcela con la scrittura o il cinema o non avrei mangiato. Cosa c’entrava andare a scaricare casse per i profughi? C’entrava, perché mi permetteva di scrivere di una cosa enorme ed intensa come la guerra [anche se per un piccolissimo giornale], quindi di fare un passo avanti nel personalissimo assurdo percorso che con la mia scarsa concretezza e la mia solita sciatteria avevo strutturato.
Un percorso il cui traguardo era poco chiaro come tutto il resto, infatti non portai la video camera, temendo me la rubassero. Rimasi venti giorni a Valona, poi quando venne firmato il cessate il fuoco, accompagnando un folle [ora giornalista di Report] free lance mio coetaneo ci spostammo in Kosovo.
Un avventura assurda : riuscii ad ottenere un accredito NATO da giornalista [che non ero] grazie ad un fax finto mandatomi da un amico da casa, passammo la frontiera di notte a bordo di un taxi scalcagnato, fummo fermati dai soldati serbi sbandati, mollati ad un check point inglese, finimmo il viaggio insieme alle truppe tedesche. Un’ esperienza per inciso, che in parte ho riportato in Shadow.
Poi a Prizren conoscemmo un giornalista di Radio Radicale: Antonio Russo. Di Antonio divenni amico, molto, moltissimo. Era un genio, era un pazzo, era coraggiosissimo. Lo accompagnai in aeroporto prima del suo secondo viaggio in Cecenia, dove trovò la morte. Lo sentii pochi giorni prima lo uccidessero, era spaventato, gli dissi di fare attenzione, gli dissi che non avrei voluto che il mio primo film fosse su di lui. “E perché?” Mi rispose “Sarebbe bello invece.”
Fu al suo funerale, nelle Marche, che conobbi Bill Rubenstein, uno sceneggiatore americano che aveva scritto: Oltre Rangoon di Boorman e che stava collaborando ad una storia su Antonio, ma aveva odiato il soggetto che gli avevano proposto. Bevemmo una birra dopo la funzione, simpatizzammo, mi disse che avrebbe letto un mio soggetto se glielo avessi mandato e mi avrebbe dato un giudizio e magari qualche suggerimento. La mattina dopo, tornato a Roma, scrissi un soggetto su Antonio e glielo inviai.
Bill mi chiamò dopo due ore, era molto colpito, mi chiese di collaborare, ovviamente accettai. Era ottobre, a fine febbraio ero a Los Angeles, a casa di Bill a Malibù, una specie di assurdo percorso che passava dalla pelle del mio amico e sembrava portare alla realizzazione dei miei sogni. Fu Bill ad insegnarmi le regole della sceneggiatura, lo faceva mentre lavoravamo ad un paio di progetti, uno dei quali su Antonio appunto. Purtroppo però, nonostante l’impegno, non andò. Purtroppo la conclusione della storia fu da cinema europeo, non americano, niente lieto fine. Niente Oscar per la sceneggiatura dedicato ad Antonio, niente matrimonio con Halle Berry, come in quei giorni, immodestamente, sognavo.
Tornai da Los Angeles tre mesi dopo, con la Roma che veleggiava verso il terzo scudetto, ma le mie pive personali nel sacco. Nulla era accaduto, se non che avevo fatto un’ incredibile esperienza ed avevo imparato una tecnica. Poco pensavo allora, quasi niente anzi, ma sbagliavo.
Appena rientrato infatti scrissi il soggetto per un corto, che riuscii a realizzare e montare, ed ora giace in un cassetto preziosamente custodito, era un horror. Da allora molte cose sono accadute: tantissimi articoli, alcune sceneggiature revisionate da ghost, alcune mai diventate film, due testi teatrali rappresentati un poco in giro, tre libri pubblicati [due con Mondadori] e tre film sceneggiati.
Shadow, Tulpa, ed I Milionari che dovrebbe uscire a febbraio, con la regia di Piva ed è tratto dal mio ultimo romanzo. I primi due film però, gli horror diretti da Federico Zampaglione e con lui scritti [per assurdo] li sento molto più miei.
Un po’ per il Genere, del quale sono vittima, perché pochi soffrono come me la tensione [i miei amici si divertivano ad affittare un film horror e poi invitarmi a cena, solo per vedere quanto del film reggevo prima di salutare tutti e fuggire con una scusa] ma che anche amo [solo che preferisco vedere gli horror la mattina, con il sole], un poco per l’esperienza di scriverli con Federico.
Intanto diciamo che lui è un vero esperto, ha visto migliaia di film horror e conosce registi dei quali io non conoscevo neanche l’esistenza del paese d’origine.
Ma Zampaglione è anche un vulcano e la situazione che si crea è la seguente: mentre siedo al pc, lui dietro di me non è fermo un istante, va avanti ed indietro, boxa a vuoto o a sorpresa contro i miei fianchi scoperti, per via delle mani protese verso la tastiera [siamo entrambi appassionati della nobile arte]. Spara fuori idea a raffica, la metà folli, la metà geniali, canticchia, scherza, cambia idea e poi la ricambia.
E’ un processo creativo turbolento, che passa attraverso discussioni furibonde e risate ininterrotte da venti minuti, dove, spesso, anzi quasi sempre, uno difende l’idea dell’altro e viceversa. E che crea situazioni paradossali quando magari uscendo a pranzo per fare una pausa continuiamo a disquisire di orribili omicidi, lasciando sconcertato chi ci ascolta per caso, oltre che indeciso se chiamare o meno la polizia.
Tulpa da questo punto di vista è stato il massimo, scritto d’estate, nel patio di una casa a Fregene, rimarrà per sempre indimenticabile. Ora, soprattutto, che Tulpa uscirà in America, dove alla fine di questo viaggio sono riuscito a tornare, se pur da una direzione assolutamente, totalmente inaspettata. Un viaggio iniziato nel 1999, in Albania. Un percorso assurdo, un percorso da film, anche se ancora non saprei dire esattamente di che genere.
Luca Ruocco
Roma, ottobre 2013