Meglio confessare subito: chi scrive appartiene alla gremita fascia di Dylan Dog’s addicted che popola il nostro Paese. E proprio grazie a Dylan Dog, oltre che per la naturale fascinazione che da sempre mi ha avvicinato allo studio delle tradizioni popolari, fin da giovanissimo ho attraversato i cancelli del grande luna park del cinema horror.
Come un fratello maggiore, l’indagatore dell’incubo è stato un ottimo spacciatore di titoli, registi e sotto-filoni appartenenti al genere. Da qui l’idea di dedicare queste righe proprio allo stretto rapporto che da sempre lega a filo doppio le pagine del fumetto creato da Tiziano Sclavi al cinema, con traslazioni pellicola-disegni più o meno riuscite, più o meno riconoscibili. E chissà che non sia l’incipit di un lavoro più lungo e attento, in futuro.
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La storia di Dylan Dog
Chi non conosce l’indagatore dell’Incubo, che dal numero 7 di Craven Road, a Londra, veglia, ormai da più di venticinque anni, sulle attività paranormali [e non solo] di tutta la Gran Bretagna [senza contare le trasferte]? Chi può dire di non aver mai letto almeno un albo della serie a fumetti che tra la fine del mese di settembre e l’inizio di quello di ottobre del 1986 si affaccia timidamente nelle edicole italiane, per diventare poi, a distanza di poche decine di anni, il fumetto più venduto e ristampato nella storia dell’editoria italiana?
Ma come nasce Dylan Dog? Quali furono i passi che portarono Sclavi a dare vita all’indagatore dell’incubo? Già autore di fumetti e romanziere, Sclavi era convinto [e a posteriori, come dargli torto?] che, per la scuderia Bonelli, puntare su un fumetto horror, che rinverdisse le fila del fumetto popolare, pur velandosi di una linea autoriale molto marcata, sarebbe stato un ottimo investimento.
Quello che il giovane Sclavi idea e sottopone a Sergio Bonelli e Decio Canzio è un personaggio già molto cinematografico, un detective triste e oscuro, ispirato alle pagine di Raymond Chandler, che si muoveva, senza spalla comica, nella livida città di New York.
Tra consigli editoriali e svisate d’autore, il progetto horror di Sclavi muta completamente, prima di fare il suo ingresso nell’universo bonelliano, per prendere la forma dell’indagatore scanzonato e malinconico, che insegue all’infinito l’idea d’amore e si lascia irretire, episodio dopo episodio, dalla speranza di dimostrare a sé stesso che una realtà “altra” sia possibile.
La dimostrazione più palese di un rivelato raccordo tra le pagine del fumetto e il cinema, è segnalata già nella proposizione grafica dell’indagatore [creato da Claudio Villa con il consiglio di prendere ispirazione dall’attore Rupert Everett, visto da Sclavi nel film Another country] e, ancor di più, del suo assistente, che prende il nome e l’aspetto dell’attore Groucho Marx, dichiarando, poi, in più di un albo, di indossare baffi posticci e di essere un sosia dell’originale.
I punti di contatto non si fermano qui e, prima di passare attraverso lo specchio, per analizzare come, invece, l’industria cinematografica abbia assimilato il fenomeno Dylan Dog, tentiamo una carrellata rapida e non completa di alcuni fra i momenti più cinematografici della saga dylandoghiana.
La passione di Sclavi per il cinema e l’horror, si palesa già dal titolo del primo albo, quel L’alba dei morti viventi [disegnato da Angelo Stano], che unisce quelli dei primi due capitoli della saga cinematografica di George A. Romero: La notte dei morti viventi [1968] e Zombi [1978], il cui titolo originale era proprio Dawn of the dead. Il lavoro citazionista di Sclavi, pur evitando di riprenderne narrativamente il plot, esplode nell’inserimento di alcune sequenze tratte dal secondo film zombesco di Romero all’interno della storia dylandoghiana, sullo schermo del cinema frequentato dall’indagatore dell’incubo.
La carrellata continua e, passando per la via in cui l’indagatore dell’incubo vive[Craven Road, in onore al regista di L’ultima casa a sinistra] e per il suo campanello urlante [direttamente da Invito a cena con delitto], va ad abbracciare le più grandi icone dell’horror cinematografico: dall’Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti [Jonathan Demme, 1991], che nelle pagine firmate da Sclavi, per il DD numero 80 [disegnato da Giampiero Casertano] diventa il dottor Killex; per passare al Freddy Krueger di Nightmare: dal profondo della notte [Wes Craven, 1984], che diventa ne Il buio, albo firmato da Claudio Chiaverotti alla sceneggiatura e da Pietro Dell’Agnol ai disegni, nel 1989, diventa Mana Cerace, inquieta presenza che assale le sue vittime solo in ambienti completamente bui; per arrivare ai succhiasangue del numero 62, I vampiri [firmato alla sceneggitura da Sclavi,e da Carlo Ambrosini ai disegni], trasposizione fumettistica degli alieni dell’Essi vivono [1988] di John Carpenter.
Ma lo sguardo degli autori dylandoghiani nei confronti dell’industria filmica sborda, spesso e volentieri, anche nell’horror televisivo, come per la doppia storia iniziata con l’albo I segreti di Ramblyn [sceneggiatura di Sclavi e disegni di Montanari & Grassani], che ricalca alla larga il Twin Peaks di Lynch.
Oltre a continui riferimenti al cinema horror italiano, da cui Dylan Dog eredita gran parte dell’estetica [basti pensare alla visionarietà argentiana, riversata negli albi della serie a fumetti, e talmente radicatasi all’interno da essere ormai parte fondante del suo fascino], il fumetto italiano horror per eccellenza non poteva escludere dal suo carnet autori seminali come Cronenberg [una per tutte Canale 666, di Sclavi e Ambrosini, è un’ottima rielaborazione dei temi di Videodrome], Hooper [La casa infestata, di Sclavi e Castellini, si rifà a Poltergeist] e Polanski [che ispira il numero speciale Gli inquilini arcani [firmata da Sclavi e disegnata da Corrado Roi per ComicArt].
I paralleli sarebbero infiniti, ed è impossibile [e forse poco utile] continuare a verificarli. È il momento di oltrepassare lo specchio e osservare la vita cinematografica dell’indagatore dell’incubo. Prima di andare avanti, una domanda: e se la discendente qualità degli albi, che da anni ormai i lettori storici riscontrano di mese in mese, fosse imputabile proprio ad un’uguale sfortunata parabola del genere cinematografico a cui Dog è legato dal suo primo passo nelle edicole?
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Dellamorte Dellamore: l’approdo in sala della metà oscura di Dylan Dog
È il 1994 quando Dellamorte Dellamore arriva in sala. Quello di Soavi è il film della discordia. Orde di incontenibili fan, che per chissà quale motivo, si aspettavano di veder scorrere sullo schermo una trasposizione filmica delle avventure dell’indagatore dell’incubo, rimangono per lo più delusi. Ma quello di scambiare Dellamorte Dellamore per la prima trasposizione cinematografica di Dylan Dog è un errore allargato, un’affermazione che ancora oggi capita di risentire o di rileggere, che è riuscita, in parte in patria, ad offuscare la nomea di un gran film, uno tra i migliori titoli di genere prodotti in Italia negli ultimi trent’anni e, di certo, quello che è riuscito meglio ad ibridare, all’interno di una storia tipicamente horror, elementi d’assurdo e toni da commedia.
In realtà, il film di Michele Soavi, con la sceneggiatura di Gianni Romoli, è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Tiziano Sclavi [pubblicato nel 1991, ma scritto diversi anni prima del concepimento del personaggio di Dog], ma esibisce in locandina un incisivo: “dal romanzo di Tiziano Sclavi, l’autore di Dylan Dog”. A questa frase di lancio, però, si aggiungeva la foto di Rupert Everett, nei panni di Francesco Dellamorte, con giacca nera, camicia e pistola infilata nei pantaloni. Al nome di Dylan Dog, citato sul cartellone, faceva eco il Dylan Dog in carne e ossa che guardava di sbieco lo spettatore, aiutando l’erroneo 1+1.
Il romanzo di Tiziano Sclavi, in realtà, qualcosa a che fare con Dylan Dog la aveva. Oltre a vivere della stessa cupa ironia, tipica della narrativa dell’autore, ed essere stato una sorta di avo dell’indagatore dell’incubo, Francesco Dellamorte, aveva vissuto una seconda vita proprio fra le pagine del terzo Dylan Dog Speciale: quell’Orrore nero che, nel 1989, aveva creato un parallelo tra le due creature sclaviane, creando un ponte narrativo che univa l’indagatore di Londra al suo alter ego più oscuro. Ma chi era Francesco Dellamorte?
Solitario guardiano del cimitero di Buffalora, Francesco Dellamorte si ritrova, suo malgrado, a dover vegliare, assieme al suo assistente Gnaghi, su una strana epidemia, che fa ritornare in vita i morti, dopo qualche giorno dal decesso. Stando così a stretto contatto con la morte, però, Francesco inizia a domandarsi se ci siano reali differenze tra i suoi “ritornanti” e gli altri abitanti di Buffalora, i vivi, da cui si è sempre tenuto debitamente a distanza.
La storia è pregna del nonsense e dello humour nero tipicamente sclaviani anche grazie al rispettoso adattamento di Romoli, ma quelli che, in partenza, sarebbero dovuti essere i suoi punti di forza, insomma, si rivelarono, purtroppo, dei punti di rottura con un pubblico impreparato, che stava già disimparando [se non lo aveva già fatto] a digerire i film di genere, figurarsi se posti di fronte alla via dell’ibridazione e del nonsense!
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Dylan Dog: Il film e il fan film
Annunciata e scongiurata più volte, la trasposizione filmica delle avventure di Dylan Dog era già passata nelle mani degli americani dal 1998. La questione iniziò a diventare preoccupante solo nel 2009, quando, cominciando con indiscrezioni e andando avanti con le prime foto dal set, per arrivare al trailer, era stato facile per tutti i conoscitori rendersi conto che il protagonista della pellicola avrebbe avuto davvero poco a che fare con quello della serie a fumetti edita da Sergio Bonelli Editore.
Dylan Dog – il film [2010], in effetti, non parla nella maniera più assoluta di Dylan Dog, e solo i pochi fortunati lettori che hanno saggiamente deciso di non guardare il film, non sanno ancora quanto possa essere distante il personaggio del film di Munroe da quello sclaviano. Si parla di lacune incolmabili, di scelte dall’opposto diametro.
Nonostante i punti di distanza che è più che giusto concedere ad una trasposizione filmica di un qualsiasi personaggio, quello che viene fuori dal rimpasto monroeiano sembra una brutta copia dell’originale, una forzata caricatura, che dell’eroe sclaviano porta immotivatamente solo il nome.
Dylan Dog – il film è solo un lavoro al ribasso: se il fumetto rappresenta un punto alto nella produzione nostrana delle nuvole parlanti, il film cerca la via più facile, e si affloscia in un teen-horror-movie, ma non riesce a primeggiare neanche tra questi. Il film di Munroe fa acqua da più punti: è permeato fino all’indigestione di sciocca ironia, i vampiri sono chiaramente presi in prestito da horror televisivi in stile Buffy e gli zombi… signori miei, un capitolo a parte lo meriterebbero gli zombi, frammezzati fra comici di scadente cabaret ed enormi creature tutto-muscoli completamente fuori di testa.
Assieme al vero Dylan Dog scompare, “giustamente”, tutto il suo mondo [Londra, il maggiolone bianco decappottabile, lo stesso mestiere di “indagatore dell’incubo], fatto di comprimari e antagonisti [da Groucho a Bloch a Xabaras], di cui Thomas Dean Donnelly e Joshua Oppenheimer, sceneggiatori del film, hanno pensato di poter fare a meno.
Un po’ più a favore dei fan gioca Dylan Dog – La morte puttana [2012] scritto da Denis Frison [che riveste anche il ruolo di protagonista e di regista], insieme a Walter Brocca [che nel film interpreta il ruolo di Groucho] e Cristian Marcaggi [la Morte]. La cosa più interessante è che Dylan Dog – La morte puttana [2012] è un fan film, un film sperimentale e low budget, senza fini di lucro, in cui si potranno anche riscontrare difetti audio e fotografici, oltre che rilevare la presenza di attori non professionisti, ma che proprio in quanto opera di alcuni fan destinata alla fruizione di altri fan, esiste proprio per strizzare di continuo l’occhio all’appassionato spettatore con la riproposizione di personaggi [Groucho, Bloch, Madame Trelkowki], luoghi [Londra e, nientemeno, la sede di Sclotland Yard] e situazioni riconoscibili.
La storia è incentrata sul ritorno nella città di Venezia dell’indagatore londinese [dopo un primo viaggio raccontato nell’episodio numero 126 della serie a fumetti, La morte rossa], per seguire il caso delle sorelle Lisa e Marika Valesi [Klivia Di Pompeo e Alexandra Foffano]. Dopo la scomparsa di Marika, Lisa vola sino a Londra, per assumere Dylan Dog: la sorella sarebbe stata vittima, nel periodo di poco precedente alla scomparsa, di una serie di incubi premonitori, in cui una donna veniva ricorsa e minacciata da una serie di morti viventi.
Dopo aver appurato, soprattutto in rete, il gradimento dei fan nei confronti del film indipendente, ormai è chiaro che quello mainstream si sia rivelato un enorme buco nell’acqua. Per altro è risultato quantomeno strano che Sclavi e la Bonelli Editore abbiano steso sulla faccenda un velo di pesante silenzio: nessuna dichiarazione, ufficiale o meno, tantomeno uno schierarsi a favore o contro il film. Forse perché coscienti [troppo tardi] di aver messo l’old boy nelle mani sbagliate.
Nel frattempo la strada del fan film sembra aver galvanizzato più di un filmaker indipendente, creando dei veri e propri focolai creativi: uno di quelli venuti più in luce è il Dylan Dog: Il trillo del diavolo di e con Roberto D’Antona.
Altro progetto, potenzialmente molto interessante, è il Dylan Dog – Vittima degli eventi, un lungometraggio indie che Claudio Di Biagio e Luca Vecchi stanno portando avanti attraverso una campagna di ricerca fondi che trovate a questo link [ http://www.indiegogo.com/projects/dylan-dog-vittima-degli-eventi ] dove è anche possibile visionare un teaser riguardante il film!
Luca Ruocco
[saggio breve, ora aggiornato, già pubblicato su “Horror Project Magazine” dei mesi di giugno/luglio 2012]