“Bisogna gridare la gioia d’amare. Bisogna cantare. Bisogna suonare. le nostre chitarre non bastano più. Usiamo le urla del vento. Usiamo il fragore del mare. Le nostre chitarre non bastano più! Ci guida il Signore dall’alto del cielo […]”.
È questo uno dei testi racchiusi nei Salmi per il nostro tempo, dal titolo Bisogna cantare la gioia, cantati alle messe beat da giovani capelloni armati di chitarre, bassi, tastiere e percussioni, che negli anni ’60 rivoluzionarono le liturgie ecclesiastiche col beneplacito della chiesa cattolica, e dunque del Vaticano.
È sulla storia della musica beat, come pure sulla sua evoluzione e sulla sua forza propagandistica che il regista Paolo Fazzini [Mad in Italy, 2012, qui; tra i registi di P.O.E. – Poetry of Eerie, 2011, qui], documentarista, musicista e autore televisivo, dedica Che il mio grido giunga a te, un documentario appassionato e appassionante, completo in ogni suo punto perché minuzioso e attento a far interagire diversi elementi: dai filmati di repertorio alla documentazione fotografica, dalle attente e preziose testimonianze da parte di alcuni protagonisti della musica beat [tra cui Giancarlo Martucci, del gruppo The Bumpers, Bruno Rukauer, del clan Alleluja, Gegè Polloni del gruppo Gli Amici, Benito Urgu de I Barrittas] alle riflessioni di diversi esperti musicali [Pierpaolo de Iulis, famoso collezionista di dischi e fondatore dell’etichetta Rave Up Records, Dario Salvatori, Massimo del Pozzo, dell’etichetta Teen Sound Records e Alessandra Monorito, Mauro Scaringi] e dello storico e docente universitario Giovanni Sabbatucci.
Non solo. Che il mio grido giunga a te, presentato al Festival Beat di Salsomaggiore lo scorso 29 Giugno, se da un lato guarda alle origini del beat, dall’altro segue lo sviluppo della musica beat di oggi attraverso il racconto di Tiziano Tarli, membro del Complesso degli Illuminati [band che ripropone la musica beat], cantante della rock band Sweepers, ammalato di musica fin dall’adolescenza, nonché esperto musicale e autore di saggi musicali [Beat Italiano dai capelloni a Bandiera gialla, edito da Castelvecchi, 2005; La felicità costa un gettone, edito da Arcana, 2009; Op op trotta cavallino, editore Curcio, 2012], che firma la sceneggiatura con Fazzini e Alessandro Giordani [tra i registi di P.O.E. – Poetry of Eerie, 2011, ], montatore e coproduttore associato del documentario con Fazzini.
L’apertura che gli ambienti ecclesiastici mostrarono in seguito al Concilio Ecumenico Vaticano [1962-1965], rappresentò una vera riconciliazione della chiesa cattolica con la nuova società che le si poneva di fronte, impegnandosi dunque a comprendere i segnali di cambiamento che le nuove generazioni richiedevano. E come fare a popolare le chiese stesse di nuovi fedeli se non coinvolgendoli nelle liturgie stesse e permettendo loro di esprimersi attraverso la musica? Il compromesso che si venne a stabilire permise la libera diffusione della musica beat, che piantò le sue radici nel 1965 ad Ascoli Piceno, quando proprio un prete propose ad alcuni giovani di usufruire degli spazi dell’oratorio per suonare e scrivere musiche su testi cattolici da suonare poi in chiesa tra una funzione e l’altra. Da quell’esperienza nacque il primo 45 giri “beat”: Chinati ai tuoi piedi, della banda ascolana Gli Amici, su etichetta Edizioni Paoline. Viene in mente la canzone di Giorgio Gaber, La chiesa si rinnova, che parla proprio del Concilio Vaticano, e della necessità del mondo ecclesiastico di rinnovarsi per la nuova società e per salvare l’umanità.
Il beat metteva insieme la compostezza dei testi liturgici e la rumorosità della musica beat, soppiantando i canti gregoriani in favore di una nuova musica, libera, perché essere beat voleva e vuole dire liberarsi da certi canoni e rigidità passate per dare spazio a nuove forme più comunicative. Dagli inni sacri, dunque, si passò alle musiche beat, un passaggio per certi aspetti traumatico, ma necessario, come necessario fu la celebrazione della messa in italiano, comprensibile a tutti, a differenza del latino.
Ancora, il 27 Aprile 1966, a Roma, presso la sala Borromini dell’oratorio San Filippo Neri, si tenne un vero e proprio evento musicale beat, organizzato da Marcello Giombini, musicologo e filologo, nonché compositore [oltre che di musica beat, di musica sinfonica e colonne sonore]. A eseguire le musiche furono i Barrittas, i The Bumpers e gli Angels and The Brains.
Alla fine dell’esibizione, parte dei partecipanti risposero al concerto con entusiasmo, mentre un’altra fetta mostrò non poca ostilità nei confronti di nuovo genere musicale, che sembrava contrastare con l’ambiente ecclesiastico, e gli stessi rappresentanti del beat erano in un certo qual modo accusati di aver traviato le menti pure dei membri della chiesa cattolica. Da quel momento, le liturgie ecclesiastiche furono investite esse stesse da un cambiamento che era nell’aria, e che coinvolse tutti gli ambiti artistici, così come la società stessa, spettatrice e responsabile di una ventata di novità e rigenerazione in un periodo, gli anni ’60, in cui l’Italia era attraversata dal boom economico e ci si liberava pian piano dagli schemi sociali in cerca di una trasformazione costruttiva globale.
Che il mio grido giunga a te è un viaggio in musica che racconta l’apertura dell’attività pastorale, impotente di fronti agli stimoli e alla creatività che riceveva, e dunque irrimediabilmente contagiata da essi.
Gilda Signoretti
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CHE IL MIO GRIDO GIUNGA A TE
Regia: Paolo Fazzini
Con: Tiziano Tarli, Pierpaolo de Iulis, Giancarlo Martucci, Bruno Rukauer, Gegè Polloni, Benito Urgu, Dario Salvatori, Massimo del Pozzo, Mauro Scaringi, Giovanni Sabbatucci, Alessandra Monorito
Sceneggiatura: Paolo Fazzini, Tiziano Tarli, Alessandro Giordani
Produzione: Kinogarage
Distribuzione: /
Anno: 2013
Durata: 50′