Quello lasciato in bocca da Senza nessuna pietà è il sapore inconfondibile dell’amaro, quello che lasciano solo quei film che, dopo averne pregustato sulla carta del menù il potenziale intrinseco dato dalle maestranze artistiche e tecniche che lo hanno realizzato, offrono allo spettatore di turno la più classica delle occasioni mancate. Questo perché l’esordio alla regia in un lungometraggio di Michele Alhaique, presentato prima sugli schermi della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia (in concorso nella sezione Orizzonti) e del Toronto Film Festival, per poi approdare nelle sale a partire dall’11 settembre con Bim, dimostra una fragilità e un’insicurezza che mandano letteralmente in frantumi gran parte di quelle aspettative che si erano andate a riversare sulla pellicola. Simili punti deboli si manifestano agli occhi del fruitore soprattutto dal punto di vista drammaturgico e narrativo, con una scrittura debole e discontinua che alla fine dei giochi si rivela come il vero tallone d’Achille. Un ostacolo, questo, che non consente all’opera e al racconto che lo anima di raggiungere l’esito che in molti, compresi gli addetti ai lavori e la critica, avrebbero voluto e sperato di vedere.
Le suddette aspettative erano fisiologicamente legate proprio al passaggio dietro la macchina da presa di un attore di talento del panorama nostrano che, oltre ad essersi confrontato con buoni risultati nei ruoli più disparati sul piccolo e grande schermo [da Qualche nuvola a Cavalli, passando per Che bella giornata ed Eroi per caso], aveva già affinato la mira come regista ottenendo ottimi riscontri e riconoscimenti [tra cui il “Nastro d’Argento” di categoria] con il pluri-premiato cortometraggio del 2008 dal titolo Il torneo. Ma la lunga distanza è ben altra cosa e le varianti con le quali si entra in contatto sono triplicate, a cominciare proprio dall’economia di un narrazione che deve svilupparsi e dipanarsi all’interno di una distanza cronometrica maggiore, che implica una dilatazione degli eventi e non una compressione in termini di durata come quella imposta dalla produzione di un short.
Per cui ci si trova a fare i conti con uno script che annaspa, che si tiene con estrema difficoltà a galla, solo grazie alla tridimensionalità e allo spessore che riescono a dare con il rispettivo apporto gli attori chiamati a raccolta per interpretare dei personaggi altrimenti “poveri” e piatti, costruiti a immagine e somiglianza di quelli che tradizionalmente popolano i plot e le storie iscrivibili nel cinema di genere. Alhaique si aggrappa con le unghie e con i denti a uno schema collaudato, dando origine a un polar vecchio stampo che ci trascina, palleggiando tra la periferia e il litorale romano, nella vita di Mimmo, un uomo qualunque che come tale vorrebbe fare solo il muratore, perché preferisce costruire palazzi piuttosto che esercitare violenza sugli altri. Ma Mimmo vive in un mondo feroce dove bisogna rispettare le regole se si vuol sopravvivere. Tutto cambia quando nella sua vita irrompe Tania, una ragazza bellissima. Tutto sembra andare per il verso giusto, ma non si può sperare in una nuova vita senza fare i conti con la vecchia.
Sinossi alla mano, lo schema seguito per la costruzione dell’architettura drammaturgica è di quelli facilmente riconoscibili e di conseguenza dagli sviluppi piuttosto prevedibili. Quella di Mimmo e Tania è la solita fuga disperata verso una felicità impossibile, con il primo costretto a fare i conti con le cosiddette “conseguenze dell’amore”, le stesse con le quali il Titta Di Girolamo della seconda splendida opera di Sorrentino e tanti come lui hanno dovuto misurarsi per provare a sopravvivere dopo aver rotto l’equilibrio di un sonno criogenico che li ha addomesticati. La rottura, inspiegabilmente tardiva, è data dal raggiungimento del turning point, ossia dalla mancata consegna della ragazza al cattivone di turno, ossia il laido e senza scrupoli cugino del protagonista, Manuel. Una folata di violenza che suona come il gong in un incontro di boxe, ma che non sortisce gli effetti sperati, tanto nel ritmo quanto nell’intensità di un racconto che rimangono anch’essi involuti.
Ciò non consente al film di cambiare marcia, evitando al risultato finale una stanca e inevitabile deriva, attenuata nel suo compimento da una buona direzione degli attori e da una confezione estetico-formale degne di nota.
Alhaique dirige bene un ottimo cast capitanato da Pierfrancesco Favino e dimostra di conoscere bene le potenzialità visive messe a disposizione della macchina cinema con una regia d’impatto e d’effetto, curata e attenta ai particolari della messa in scena, costretta però dall’inconsistenza e dall’instabilità della scrittura a restare cristallizzata. Ne scaturisce un’opera che parla di legami sentimentali e familiari destinati a interrompersi, accattivante nella superficie, ma incompiuta e frenata nell’anima, che delude le attese in essa riposte e irretisce per quello che poteva essere e che invece non è stata.
Francesco Del Grosso
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SENZA NESSUNA PIETÀ
Regia: Michele Alhaique
Con: Adriano Giannini, Claudio Gioè, Greta Scarano, Ninetto Davoli, Pierfrancesco Favino
Uscita in sala in Italia: giovedì 11 settembre 2014
Sceneggiatura: Andrea Garello, Emanuele Scaringi, Michele Alhaique
Produzione: Lungta Film, PKO, Rai Cinema
Distribuzione: Bim Distribuzione
Anno: 2014
Durata: 98′