In attesa di vedere il suo Unbroken, Angelina Jolie ci mette il nome e la faccia per promuovere l’uscita di un film che l’ha vista impegnata nelle vesti di co-produttrice. Forte proprio delle parole di apprezzamento spese nei suoi confronti dalla celebre attrice statunitense, e dei prestigiosi riconoscimenti ottenuti alla Berlinale e al Sundance [Premio del pubblico a entrambe le kermesse], arriva nelle sale italiane con Satine Film il candidato etiope per l’Oscar come miglior film straniero [non è rientrato nella cinquina finale]: Difret – Il coraggio di cambiare.
Scritta e diretta da Zeresenay Berhane Mehari, la pellicola racconta la storia di Hirut, una sveglia ragazzina di quattordici anni, aggredita e rapita da un gruppo di uomini a cavallo, che nel fuggire riesce ad afferrare un fucile con il quale spara e uccide Tadele, ideatore del rapimento nonché suo “aspirante futuro sposo”. Nel villaggio di Hirut e Tadele, cosi come nel resto dell’Etiopia, la pratica del rapimento a scopo di matrimonio [detta Talefa] è una delle tradizioni più antiche e radicate, e la ribellione di Hirut, che uccide l’uomo che l’ha scelta, non le lascia possibilità di scampo.
Nel frattempo, ad Addis Abeba, una giovane donna avvocato, Meaza Ashenafi, si batte con tenacia e determinazione per difendere i diritti dei più deboli; tramite l’attività di ANDENET, un’sssociazione di donne avvocato, l’avvocato offre assistenza legale gratuita a coloro che possono permettersi un avvocatoe. Obiettivo di Meaza è far rispettare la legge ufficiale del Paese, rendendo così inefficaci le decisioni prese, secondo consuetudine, dai consigli tradizionali popolari. Meaza viene a conoscenza dell’arresto di Hirut e cerca di farsi affidare il caso per dimostrare che la ragazzina ha agito per legittima difesa e proteggerla quindi dalla vendetta dei familiari del defunto e dal carcere a vita imposto dalla legge. Pur di salvarla, Meaza è disposta a correre il rischio di vedere vanificati i risultati ottenuti fino a quel momento dall’Associazione, e a mettere in gioco il suo stesso futuro.
Purtroppo ciò che prende forma e sostanza sul grande schermo attraverso la scrittura e la messa in quadro del regista etiope, non è “frutto” della sua immaginazione, ma una storia vera, che ha le proprie dolorose e insanguinate radici in una tradizione popolare che si tramuta in cronaca nera. L’opera prima di Mehari è la cronaca agghiacciante di una vicenda realmente accaduta, legata appunto all’antica e barbara tradizione della Talefa [oggi bandita], che ha visto protagonista una ragazzina che ha avuto il coraggio di ribellarsi, consegnando alla storia del suo Paese e alla causa dei diritti umani il primo tassello di un’importante “rivoluzione”.
In tal senso, quella che va in scena nell’opera è un faccia a faccia tra l’ostinata arretratezza culturale e l’evoluzione della cultura all’insegna dell’apertura mentale e della conoscenza, con la seconda che rappresenta una vera e propria minaccia da combattere a colpi di fucile e di cavilli giudiziari. Un confronto che in Difret va in scena durante il processo a Hirut, e in primis nella riunione organizzata nel villaggio alla quale prendono parte gli abitanti [rigorosamente uomini] e gli anziani, dove si decide la sorte della ragazzina, con la legge locale che si sostituisce a quella della Magistratura. Il medesimo iter che, seguendo traiettorie geografiche e tradizioni diverse, ha trovato spazio cinematografico anche in The Forgiveness of Blood, con il quale Joshua Marston ha invece raccontato una delle 20.000 storie che riguardano le faide in Albania.
Prima di un film, dunque, Difret è una testimonianza, un documento audiovisivo di grande importanza, poiché utile mediaticamente ad accendere i riflettori e a fare luce su qualcosa che, come tante altre assurde tradizioni, viene accettata e tramandata per generazioni, almeno fino a quando qualcuno non decida di rompere il silenzio e di non girarsi dall’altra parte. Ed è ciò che le due protagoniste, ciascuna a proprio modo, hanno deciso di fare: Hirut ribellandosi, Meaza schierandosi al suo fianco. Una testimonianza di quelle che non cambiano il mondo, ma quantomeno aiutano a renderlo più trasparente agli occhi di coloro che non possono vedere, e soprattutto a quelli di coloro che non vogliono vedere.
Il regista evita qualsiasi tipo di spettacolarizzazione a favore di un racconto spoglio e minimalista, che mostra e narra, ma senza alcuna morbosità o speculazione del dolore altrui. Caratteristiche che riportano alla mente un’opera con la quale Difret condivide più di un’affinità elettiva, ossia il bellissimo e acclamato Re della terra selvaggia di Benh Zeitlin. Come il folgorante esordio di Zeitlin, così quello di Mehari appartiene a quella breve lista di titoli che sanno calamitare a sé lo spettatore dal primo all’ultimo fotogramma utile, grazie alla forte presa empatica e a una capacità magnetica che prevarica lo schermo. È tra quelle pochissime pellicole in grado di inorridire, bagnare le guance e mandare in frantumi il cuore, perché sa come raggiungere e sfiorare con uno schiaffo e una carezza le sue corde attraverso quella naturalezza e semplicità che oggigiorno sono “merce” sempre più rara.
Tuttavia, c’è più di una cosa che impedisce al film di spiccare definitivamente il volo, come accaduto invece a Re della terra selvaggia. Si ha più volte la sensazione di una cronica incertezza nelle scelte di regia, con soluzioni pregevoli ed efficaci, ma assolutamente estemporanee. Questo determina di riflesso una mancanza di una cifra stilistica di base e riconoscibile. Il ricorso alla sola macchina a mano in pedinamento e attaccata ai corpi, infatti, è l’unica punteggiatura a trovare una certa continuità. Anche la scrittura drammaturgica soffre delle medesime privazioni, con improvvisi stop e salti narrativi che interrompono inspiegabilmente mediante ellissi il flusso narrativo ed emotivo del racconto, come nel caso dell’inseguimento dopo la visita clandestina di Hirut alla sua famiglia. Il tutto frenato ulteriormente dal pessimo doppiaggio italiano che ha tolto moltissimo all’opera, e soprattutto alle intense performance attoriali di Meron Getnet e Tizita Hagere, rispettivamente nei panni di Meaza e Hirut. Ciò depotenzializza la fruizione, togliendo qualche merito [tra questi c’è anche il fatto di aver portato in Italia un film etiope, una cinematografia povera in termini produttivi e distributivi] alla Satine Film che, con lungimiranza e sensibilità, ha deciso di distribuirlo nelle nostre sale a partire dal 22 gennaio.
Francesco Del Grosso
–
DIFRET – IL CORAGGIO PER CAMBIARE
Regia: Zeresenay Berhane Mehari
Con: Meron Getnet, Tizita Hagere
Uscita in sala in Italia: giovedì 22 gennaio 2015
Sceneggiatura: Zeresenay Berhane Mehari
Prodotto da: Mehret Mandefro, Leelai Demoz, Angelina Jolie
Distribuzione: Satine Film
Anno: 2014
Durata: 99′