Credo di aver cominciato a scrivere sceneggiature quando mi sono resa conto che questo tipo di espressione si adattava perfettamente al mio modo di “vedere” le storie. Mi spiego meglio: anche scrivendo un romanzo procedo a visioni, nel senso che le immagini mi scorrono davanti agli occhi come se si trattasse di un film… o un fumetto. A quel punto mi sono messa a studiare: mi sono preparata sui testi degli “addetti ai lavori”, ma soprattutto ho letto le sceneggiature dei miei maestri, in particolare Tiziano Sclavi e Alan Moore.
Quando scrivo, cerco di trasformare ogni visione in suggestione per il primo lettore della sceneggiatura: il disegnatore. Curo in maniera maniacale le scenografie e la luce di ogni scena, fornendo descrizioni dettagliate e molte immagini di documentazione visiva, il che si traduce, ovviamente, in un lungo lavoro di ricerca prima ancora di avvicinare le dita alla tastiera di Word. Ho una cura particolare per le voci dei personaggi: rileggo i dialoghi allo sfinimento finché non “suonano” come una melodia che sento vibrare nella mente. Ho bisogno di riconoscere i personaggi tramite le loro parole, di sentire la loro voce prima di addormentarmi, perché in qualche modo sono loro a suggerire come lo sviluppo della storia. Sono convinta che esistano da qualche parte, i personaggi, e che lo scrittore sia il medium che li fa attraversare la barriera, portandoli in “questo” mondo.
Senza dubbio scrivere per Dylan Dog è stata un’autentica svolta per me. Non solo per l’amore e il rispetto che provo per il lavoro di Tiziano Sclavi, per il trasporto nei confronti di un personaggio che fin da quando ero ragazzina mi ha fatto sentire compresa, io che mi sentivo diversa dagli altri, parlavo poco e pensavo troppo. Ma anche per le possibilità che offre il personaggio, che è come un involucro perfetto in cui far convergere paura, ossessione, almeno quanto speranza e romanticismo. Non si può dimenticare, naturalmente, che Dylan Dog è un fumetto popolare, che esce in edicola e si rivolge a un pubblico eterogeneo. Ma i paletti di una testata editoriale consolidata sono soprattutto sfide, piuttosto che limitazioni. E soprattutto oggi viene chiesta a noi autori la capacità di osare, di tornare a stupire come sapeva fare Sclavi.
E poi c’è Torture Garden, il primo progetto in cui sono completamente “in carica” in veste sia di sceneggiatrice che di curatrice. In questo caso ho la possibilità di seguire ogni dettaglio dello sviluppo della serie, ed è un lavoro di immensa responsabilità ma anche entusiasmante. Naturalmente non ci sono orari, ma per quello ci sono già abituata: per quanto mi riguarda, il mestiere della scrittura non è mai routine, e difficilmente conosce orari o festività.
Torture Garden [edito da Edizioni Inkiostro] è nato da una chiacchierata informale con Rossano Piccioni al Riminicomix dell’anno scorso. Avevamo fantasticato sulla possibilità di creare una miniserie con una forte componente horror declinata secondo una sensibilità femminile, quindi piuttosto diversa dall’offerta dell’editore in quel momento. La sera, rientrando a casa, mi sembrava che i personaggi esistessero già: anime tormentate come Lady Cassandra, la protagonista femminile, e Travis, la sua controparte maschile, oppresse da un passato terribile che torna a perseguitarli quando la vita sembrava scorrere lungo binari prestabiliti – per quanto controversi. Mi piace definire Torture Garden un noir dell’anima, una discesa negli inferi che unisce due personaggi che non potrebbero essere più differenti, ma che scoprono, in fondo, di avere anche molte cose in comune. Ho scritto le otto pagine del numero zero di getto, prima ancora di avere ingaggiato i disegnatori che si sarebbero occupati della parte grafica della collana. Ho scelto di non presentare i personaggi in questa fase, ma di introdurre piuttosto l’atmosfera che si sarebbe respirata tra le pagine della serie.
Avevo un’idea di massima di come si sarebbe sviluppata, e come è mia abitudine ho buttato giù una scaletta di massima per la sceneggiatura che ho finito per stravolgere in fase di stesura. Preferisco lasciarmi trasportare dalla storia che attenermi a una regola, anche se autoimposta, con una sola eccezione: le tavole dedicate al finale sono sacrosante e intoccabili, per non rischiare di scrivere una conclusione affrettata.
Luca Ruocco
Roma, agosto 2016