Nel nostro paese il cinema poliziesco [scimmiottato il più delle volte come poliziottesco] ha rappresentato indubbiamente uno dei filoni più prolifici e redditizi per tutto il decennio dai Settanta agli Ottanta. Come iniziatore dobbiamo ricordare il mai troppo compianto Steno [quindi non proprio un nome a caso] e il suo gioiello La polizia ringrazia [1972], autentico capostipite a cui seguirono una miriade di prodotti che cercarono in qualche modo di ripercorrerne le caratteristiche stilistiche e concettuali.
Pellicole concepite in un’Italia immersa negli anni di piombo, ovvero in una violenza costante scaturita dalle continue tensioni sociali. Le linee guida si delinearono presto: inseguimenti rocamboleschi, sparatorie a go-go, criminali spietati e poliziotti dai metodi poco ortodossi.
All’interno di questo scenario una delle figure archetipe per eccellenza risponde al nome del commissario Betti, alias Maurizio Merli [e il suo inconfondibile baffone]. Tutore della legge a trecontesessanta gradi, integerrimo e spavaldo, proprio come richiedeva la retorica del Genere.
La prima apparizione del personaggio risale al 1975 con Roma violenta di Marino Girolami [che si firma con lo pseudonimo di Franco Martinelli], autore anche del terzo capitolo Italia a mano armata. Solo un anno dopo l’uscita [e gli incassi stratosferici] del primo, la distribuzione decise di mettere in cantiere una nuova avventura del baffuto commissario, affidando questa volta la regia a Umberto Lenzi, che solo l’anno prima aveva diretto proprio Merli in coppia con Tomas Milian in Roma a mano armata [altro cultissimo per gli aficionados].
Ma soprattutto, nel ’74, aveva firmato Milano odia: La polizia non può sparare, probabilmente il noir più estremo e disturbante del nostro cinema ancora oggi, di cui ripropone in Napoli Violenta lo stesso, spregiudicato tasso di ferocia. Ed è con Lenzi che la saga del commissario Betti raggiunge il suo apice, dando vita a quello che viene considerato [a ragione] il picco più alto dell’intero filone poliziesco.
L’azione si sposta da Roma a Napoli, dove Betti è stato trasferito, ma la sostanza non cambia: la sua lotta personale alla criminalità organizzata non tarderà a trasformarsi in un’autentica guerra sanguinaria contro il boss detto O’ Generale, provocando uno stuolo di cadaveri da entrambe le parti.
Assistiamo così ad uno spettacolo che non conosce momenti di relax e procede con un ritmo forsennato, arrivando a mostrare la violenza con un’immaginario quasi da cinema horror [un cadavere con la gola conficcata nella punta di un cancello, una poveretta a cui viene frantumata la faccia fuori dal finestrino di un treno in corsa, un disgraziato che finisce bruciato vivo e un altro a cui viene sfondato il volto con una palla da bowling]. Il che provocò la classica serie di futili e scontate polemiche che comunque non frenarono l’entusiasmo del pubblico, con le sale letteralmente prese d’assalto.
In un tour de force di momenti mozzafiato, sarebbe un oltraggio non citare almeno le due sequenze in cui una motocicletta, ripresa in soggettiva, sfreccia a tutto gas da una parte all’altra della città.
Cos’altro aggiungere? Un Merli al top della forma che affronta ogni scena d’azione senza nessuna controfigura e Lenzi che ci regala una delle sue migliori regie di sempre. Fanno la loro parte anche una serie di ottimi comprimari [tra cui l’inossidabile John Saxon] e l’azzeccatissimo score di Franco Micalizzi.
Cinema di Genere? Cinema BIS? Forse più semplicemente Cinema… quello con la C maiuscola.
Lorenzo Paviano
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NAPOLI VIOLENTA
Regia: Umberto Lenzi
Con: Maurizio Merli, John Saxon, Elio Zamuto, Barry Sullivan, Silvano Tranquilli, Massimo Deda
Sceneggiatura: Vincenzo Mannino
Produzione: Fabrizio De Angelis
Distribuzione: Fida Cinematografica
Anno: 1976
Durata: 95′