Tentando un paragone azzardato, si potrebbe dire: quanto Jack Nicholson sta a Shining, tanto Tomas Milian sta a Milano Odia. In altre parole: se, nominando Nicholson, ogni cinefilo che si rispetti evocherà come prima immagine il volto di Jack Torrance con il suo sorriso diabolico, allo stesso modo, pensando a Milian, non potrà che richiamare alla memoria l’espressione invasata e rabbiosa di Giulio Sacchi. Alias il cattivo più selvaggio e psicotico mai apparso nel cinema italiano. Ma anche uno dei più ambigui e sfaccettati: sadico torturatore e assassino ma allo stesso tempo perdente a tutto tondo, capace di incutere uno spiazzante alone di malinconia; autoritario ma vigliacco; carismatico ma avvolto da un perenne alone di solitudine; calcolatore ma imprevedibile nella sua brutale schizofrenia; astuto oratore ma ingenuo ai livelli di un infante.
Lo stesso Milian [doppiato qui per la prima volta da Ferruccio Amendola] non ha mai nascosto di aver assunto continuamente droghe e alcool durante le riprese per riuscire a rendere al meglio una simile caratterizzazione [tra l’altro fu lui stesso a scegliere il ruolo di Sacchi dopo aver letto il copione, che in origine gli avrebbe riservato la parte di un altro malvivente]. Sarebbe però riduttivo circoscrivere alla performance del suo protagonista l’alone di culto che la pellicola si porta dietro, così come il suo status di classico inteso nell’accezione principale di modello.
Milano Odia è anche il capolavoro alla regia di Umberto Lenzi, vale a dire uno di quei nomi che hanno scritto la storia del nostro [glorioso e intramontabile] cinema di Genere. Siamo nel pieno del vortice di violenze legate agli Anni di Piombo, con il dilagare di una criminalità sempre più efferata e senza controllo. Nell’industria cinematografica vanno per la maggiore storie con poliziotti dediti alla giustizia fai da te contrapposti a spietati delinquenti di ogni razza, spesso legati a contesti sociali di degrado e animati da un irrefrenabile desiderio di rivalsa sociale.
E’ in quest’ottica di mercato che il produttore Luciano Martino [fratello del Sergio regista] commissionò a Ernesto Gastaldi uno script ambientato sullo sfondo di un’Italia quasi paranoica, animata da disordini e tensioni sociali. In cabina di regia venne appunto scelto Lenzi, che solo l’anno prima si era addentrato nel noir con l’ottimo Milano Rovente. Ma questa volta il cineasta toscano si spinge ben oltre la schematizzazione dei Generi, intervenendo in primis sullo script per accentuare al massimo ogni lato più estremo del suo personaggio principale.
L’incipit ci scaraventa subito in faccia tutta la follia che pervaderà questa figura fino all’ultima scena: Sacchi sta aspettando in auto, pronto alla fuga, un gruppetto alle prese con una rapina dentro una banca. Un vigile si avvicina per fargli una contravvenzione e lui, senza pensarci troppo, gli spara a bruciapelo. Poi lo ritroviamo malmenato da un datore di lavoro che non gradisce troppo i suoi colpi di testa e qui, da belva sanguinaria, sembra trasformarsi in un docile agnellino senza dignità. Fino a quando riesce a convincere due compagni di bevute al bar, anche loro delinquenti di mezza tacca, ad organizzare il colpo che trasformerà per sempre le loro vite: rapire la figlia di un noto industriale per strappargli un cospicuo riscatto. Così una notte il trio fa irruzione nella lussuosa villa dove vive la ragazza e assistiamo ad una delle vette shock di tutti gli anni Settanta: una classica famiglia borghese che, tra stupri, torture e omicidi, viene massacrata senza pietà dalla furia incontrollata della cosiddetta feccia urbana.
Un climax da cardiopalma culminante con i padroni di casa appesi ad un lampadario e trucidati a colpi di mitragliatore. Sulle tracce dei rapitori si trova un commissario cinico e disilluso in stile Callaghan che ha il volto dell’onnipresente Henry Silva, al solito monoespressivo ma perfetto per la parte. Ostacolato dai superiori e dalle istituzioni, l’irreprensibile uomo di legge decide di gettarsi in una personale caccia all’uomo senza regole né compromessi. Fu proprio il nichilismo che emerge nel concept stesso del film ed esplode nella sua tesi finale [dove la violenza diventa quasi una sorta di purificazione] a far scatenare un vespaio di polemiche su quanto un’opera simile potesse risultare concettualmente pericolosa. Al di là di tutto, nessun altro titolo ha saputo rappresentare in modo più incisivo la ferocia di quegli anni e di quel cinema. Mancherebbe da citare lo score di Morricone… indimenticabile. Come ogni altro tassello che compone questo splendido mosaico. Un plauso obbligatorio alla Shameless, prima label a distribuire finalmente questo gioiello in un’ottima [e doverosa] versione restaurata in Blu-Ray.
Lorenzo Paviano
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MILANO ODIA: LA POLIZIA NON PUO’ SPARARE
Regia: Umberto Lenzi
Con: Tomas Milian, Henry Silva, Laura Belli, Guido Alberti, Ray Lovelock, Gino Santercole, Anita Strindberg
Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi
Produzione: Luciano Martino
Distribuzione: Dania Film
Anno: 1974
Durata: 100’