Ci sono titoli che vivono volutamente rilegati nel profondo underground che li ha partoriti, il più delle volte oggetto di dibattito tra varie fazioni di appassionati. Guinea Pig è un marchio arcinoto ai seguaci dei cosiddetti shock-movies ed identifica una serie di film orientali [di cui abbiamo parlato qui] che mettono in primo piano la distruzione sistematica del corpo umano, puntualmente violato, sezionato, umiliato e disintegrato.
Tra finti snuff [di cui il secondo capitolo, Flower of Flesh and Blood, è con ogni probabilità il più famigerato] e deliranti commedie nere di dubbio divertimento [l’orrendo Devil Woman Doctor o il grottesco He Never Dies], spiccava per qualità e originalità il quarto episodio, Mermaid in a Manhole, l’unico del lotto in grado di unire con maestria il martirio visivo ad una vicenda tragica e niente affatto banale.
Passano gli anni [tanti] e anche questo tipo di cinema cambia pelle, si trasforma e prende altre strade. Fino quando nel 2014 Stephen Biro, boss della Unearthed Films, annuncia a sorpresa una sorta di rivisitazione a stelle e strisce dell’infame saga nipponica ed esordisce con il primo, efficace segmento American Guinea Pig: Bouquet of Guts and Gore [di cui abbiamo parlato qui]. Solo un anno dopo ecco giungere anche un numero due, Bloodshock, dove il timone della regia passa all’effettista Marcus Koch.
Prendendo alla lettera il concetto di cavia umana che fa capo alla serie, il film racconta l’inspiegabile [almeno all’apparenza] calvario di un uomo rinchiuso in una sorta di prigione, dove viene sottoposto ad una sequela di torture sempre più insostenibili dal mad doctor di turno. In mezzo a questa tremenda routine inizierà ad essere vittima di inquietanti visioni nonché ad avere una forma di corrispondenza con una donna, anch’essa prigioniera, in grado di far scattare in lui quella scintilla di ribellione che porterà ad un’agghiacciante verità.
Praticamente privo di dialoghi e con un bianco e nero che ricopre la quasi totalità delle inquadrature, Bloodshock è un assalto visivo che richiede nervi saldi e una discreta predisposizione mentale prima di essere affrontato. Se, com’è logico e scontato, le scene gore non mancano e vengono rappresentate nel dettaglio in tutto il loro orrore [e con ottimi FX], è l’atmosfera di assoluta claustrofobia e disperazione dell’intera opera a disturbare non poco, grazie ad una sapiente regia unita ad un lavoro di sound sopraffino e sanamente fastidioso.
La capacità di mettere in scena l’abominio e il dolore non è cosa da poco ed è innegabile la classe che un simile prodotto di nicchia è capace di tirare fuori, sapendo di volta in volta rilanciare questo non-racconto e giocando le sue carte finali [tecniche e concettuali] in una sequenza di devastante ferocia che ripristina poco a poco il colore. Una volta arrivati ai titoli di coda, verrà svelato in un drammatico twist tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento. E’ bene ribadire ancora che siamo in ogni caso di fronte ad uno spettacolo destinato solo e soltanto ad un pubblico incline a certe visioni, ma allo stesso tempo è indubbio che abbiamo a che fare con uno dei migliori lavori usciti dal sottobosco del cinema indipendente più sporco e malato. Ad averne di piccoli gioielli simili.
Raffaele Picchio
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AMERICAN GUINEA PIG: BLOODSHOCK
Regia: Marcus Koch
Con: Dan Ellis, Lillian McKinney, Andy Winton
Sceneggiatura: Stephen Biro
Produzione: Unearthed Films
Distribuzione: Unearthed Films
Anno: 2015
Durata: 91′