Tim Burton è allegro e disponibile come non si era mai visto prima. Entra in conferenza stampa baldanzoso e spedito, accennando, perfino, qualche passo di danza. L’ultima volta che si era presentato dinnanzi alla stampa nostrana aveva confermato la sua fama di cineasta riservato e schivo. Fortunatamente, per introdurre e raccontare Dumbo, ha tradito questa aspettativa, dando il meglio di sé.
Capisci che in grande forma quando prende le distanze da paragoni importanti e intellettuali come quello con De Mille e il suo capolavoro Il Più Grande Spettacolo del Mondo. Quando confessa di non amare affatto il circo e che, in fondo, la sua versione di Dumbo potrebbe ricordare il disagio di un filmmaker indipendente che lavora per una major.
“Le logiche commerciale spesso possono compromettere il risultato artistico, fino a rovinare tutto. Tuttavia, la libertà creativa completa è impossibile da raggiungere: così è la vita!” ci spiega gesticolando freneticamente. “Eppure, il finale di Dumbo, credo che possa pareggiare i conti: la sua fuga dal circo è quello che chiamo lieto fine”.
Risulta autentico e pacificato il regista di Edward Mani di Forbice, a tal punto da riconoscere come nel corso della sua carriera il rapporto con Disney sia cambiato: “Ci sono stati momenti difficili, non posso negarlo. Ma la Disney è come una famiglia per me e riconoscerete che non si può amare la propria famiglia sempre e nello stesso modo. Ci sono alti e bassi. Non ne farei un dramma”. Archiviate le tensioni e i dissapori, Disney e Burton tornano a lavorare insieme sull’unico progetto possibile per questo cineasta: “È forse il film Disney che più mi ha colpito, inoltre era anche quello più difficile da rifare. Dumbo appartiene molto al suo tempo e quindi occorreva necessariamente estrapolarne i temi e fare qualcosa di diverso e attraente. Diciamo che per la scelta tra i film Disney si era ristretta tra Dumbo e Il Gatto Venuto Dallo Spazio”.
Impossibile non parlare della sequenza psichedelica degli elefanti rosa e di come abbia trovato spazio in questo nuovo adattamento: “Quella è una sequenza che ricordano tutti e anch’io, naturalmente. È assurda e sperimentale perfino per gli standard di oggi. Avveniva in seguito a una bronza, ma ci pensate a farla oggi cosa succederebbe? Non volevo un Dumbo ubriaco fradicio nel mio film, così come non volevo i corvi con il loro atteggiamento razzista. Tuttavia, restano immagini potentissime e quindi dovevano esserci. Mi è sembrato che non farne più un incubo ma approcciarla come una visione fantastica dell’elefantino fosse la maniera migliore. E poi mi consentiva di rispettare quello spirito originale”. Per realizzare questa e altre sequenze, il regista, ha lavorato diffusamente in CGI. In realtà, tutto il cinema più recente a firma Tim Burton appare essere sempre più digitale: “Le cose cambiano, ora abbiamo a disposizione nuovi strumenti straordinari. Se mi mancano le cose più tradizionali? Certo che sì. Amo i film d’animazione classici, quelli in stop motion. Però continuo a pretendere la natura tattile del fare cinema. Cerco sempre di mantenerla, nonostante l’industrializzazione”.
Infine, il sottoscritto, un po’ impunemente si è rivolto al maestro chiedendogli: “Passerà a salutare gli amici Dario Argento e Luigi Cozzi al negozio Profondo Rosso?”. Tim Burton ride e con la sua vocina squillante risponde: “Certo. È sempre aperto vero? Quando penso al cinema italiano penso solo a Fellini, Bava e Argento… e poi ai film su Ercole – di Cozzi [Ndr] – grandissimi. Dario è un magnifico filmmaker e possiede con un negozio pazzesco!”
Cosa aggiungere, carissimi lettori di InGenere Cinema, andiamo ad attenderlo da Profondo Rosso.
Paolo Gaudio