L’attesa è terminata, Amici di InGenereCinema.com, finalmente possiamo continuare con il nostro focus sui film natalizi made in Italy. Archiviamo il Crime da universo espanso e la commedia populista e dedichiamoci al mondo fiabesco di Carlo Collodi e ai drammi commoventi e sovraccarichi di una coppia giunta all’autunno della propria relazione.
Non perdiamo altro tempo, dunque, e immergiamoci nella seconda e ultima parte del nostro annuale, amato, criticato e discusso: Nightmare Before Christmas.
Sigla!
PINOCCHIO di Matteo Garrone
Matteo Garrone sogna e insegue questo film da tutta la vita. La sua prima versione della favola di Collodi l’ha realizzata a sei anni: un fumetto disegnato con matite colorate sui quaderni di scuola. È passato molto tempo da allora, quel bambino è cresciuto diventando uno dei registi italiani più importanti della sua generazione. Autore vero, con una visione chiara e fortemente personale e una poetica capace di accostare e mescolare cose distanti e distinte come la fantasia e il degrado, la cronaca nera e le fiabe. Con Pinocchio raggiunge il punto più alto della sua maturazione estetica e lo fa attraverso il fantastico nostrano più frequentato e conosciuto al mondo, realizzando il suo film più proprio e riconoscibile.
Assolutamente fedele al romanzo per ragazzi, pubblicato la prima volta nel 1881, il film ripercorre la storia del burattino dal naso lungo, sin dalla sua nascita per mano di Geppetto che ne ha intagliato le fattezze. Un tronco di legno che diventa marionetta e che acquisisce capacità motorie e intellettive, come un qualsiasi bambino in carne e ossa: questo è Pinocchio, anche se la sua carne è la corteccia e le sue ossa sono segatura. Nonostante il suo corpo sia duro come la quercia e la sua testa ancor di più, Geppetto si affeziona a lui come se fosse un bimbo vero, un suo figlio. Ma il burattino non è il bambino obbediente e studioso che il suo papà falegname sperava. Spinto da un’irrefrenabile curiosità, da un carattere birichino e talvolta ingenuo, Pinocchio si ritroverà spesso nei guai, mettendo in pericolo anche lo stesso Geppetto.
Pinocchio fa parte del DNA di qualsiasi italiano, ha formato e segnato la nostra crescita attraverso le allegorie che Collodi ha scritto e che in famiglia ci hanno raccontato e ripetuto fino all’esaurimento. A tutti è cresciuto il naso quando siamo stati bugiardi o le orecchie da ciuchino quando abbiamo preso un brutto voto a scuola. Il contenuto della favola collodiana ci appartiene ed è particolarmente italiano. Tuttavia, l’estetica, l’immaginario di questo capolavoro immortale è per lo più riconducibile all’adattamento degli anni ’40 realizzato da Walt Disney. Disegno animato raffinato e affascinate, ma niente di più distante dall’originale – mastro Geppetto costruisce orologi a cucù, non aggiungiamo altro [sic!].
Matteo Garrone pone rimedio a questo gap ispirandosi alle magnifiche illustrazioni a opera di Enrico Mazzanti, e ai colori e alle luci dei quadri dei Macchiaioli toscani. Il resto lo fa un gruppo di attori eccellenti [dal primo all’ultimo non solo Roberto Benigni che è enorme, for the record] e un cast tecnico particolarmente ispirato. Su tutti il lavoro di Mark Coulier autore del make-up speciale di tutte le creature e di Pinocchio, naturalmente.
Così per la prima volta al cinema, il burattino di legno resta burattino di legno per tutta la durata della pellicola. Vive le sue avventure attraversando un’Italia contadina e rurale estremamente povera. Sopporta la fatica e la miseria della fame. Si fa truffare, processare, derubare e impiccare. Si ammala e i conigli neri lo vengono a prendere con la bara bianca. Bacia Mangiafuoco sul naso e salva i burattini con i fili da una brutta fine – momento che porterò nel cuore per sempre. Si trasforma in somaro nel Paese dei Balocchi, lavora nel circo e finisce nel ventre del Pescecane. Infine, ritrova il padre, si redime, diventa bravo e la Fatina lo trasforma in un bambino vero.
Cosa volete di più da un film? Pinocchio è un balsamo per gli occhi e per il cuore, anche se non ha una struttura perfettamente cinematografica e non raggiunge mai il suo climax. Nonostante ciò, resta un’opera di cui andare fieri e forse, da frequentare quotidianamente, guardandone un pezzetto al giorno. Come una prescrizione medica. Forse, così facendo potremmo perfino sentirci felici, dimenticando per sempre gli orribili orologi a cucù di disneyana memoria.
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LA DEA FORTUNA di Ferzan Ozpetek
La Dea Fortuna segna il ritorno al cinema di Ferzan Ozpetek. Il regista de Le Fate Ignoranti ritrova la passione di raccontare una storia d’amore dai sentimenti carichi, densi e strabordanti. Un amore borghese e omosessuale come spesso nei suoi film, lungo quindici anni e forse giunto ai titoli di coda. Questa volta la terrazza che si affaccia su Roma è quella di Arturo e Alessandro una coppia di lunga data che resiste al tempo e alle contingenze. Tuttavia, ultimamente, il loro legame sembra non riuscire più a superare alcun ostacolo, trascinando il loro rapporto in una logorante crisi relazionale. Un giorno Annamaria, la migliore amica di Alessandro lascia in custodia a lui e al suo compagno i due figli e l’improvviso arrivo dei bambini nelle loro vite dà una svolta alla coppia e alla noiosa routine in cui sono caduti.
Ozpetek da il meglio di sé quando pone al centro del suo interesse la fatica di essere innamorati, il peso di portare avanti la relazione sotto i colpi del passare del tempo e dalla banalità dello stare insieme. La passione si affievolisce, il sesso non è più quello dei primi tempi e la comunicazione è sempre più minimale. In fondo, i suoi protagonisti si conoscono perfettamente e non hanno bisogno di parole per spiegarsi. Il silenzio è la conquista di questa coppia che usa gli occhi per parlare, ma allo stesso tempo è la maledizione che la sta logorando, aumentando le incomprensioni. L’arrivo dei bambini, la malattia di Annamaria e il senso di responsabilità ristabilisce un ordine di priorità e pone sotto un’altra luce i loro problemi. Alessandro e Arturo recuperano il senso dell’amore, la necessità del sacrificio e della dedizione per riparare ciò che si è rotto, per salvare quello che sembrava irrecuperabile.
La Dea Fortuna commuove per il tentativo di due uomini innamorati di cedere l’uno all’altro un ulteriore pezzo del loro cuore e del loro ego, per qualcosa di più grande: la loro unione. Cedere vuol dire sopportare la frustrazione delle promesse infrante, dei tradimenti e dei sogni che non si sono realizzati. Vuol dire impegnarsi ogni giorno di più a mettere al centro la verità e goderne anche quando questa è insostenibile. Perché la verità è necessaria, ma solo l’amore la rende sopportabile.
Il regista turco è bravissimo nel destreggiarsi tra queste pieghe, sofferenze e silenzi mostrando allo spettatore l’intimità di una coppia e il suo autunno.
Sfortunatamente, questa impalcatura trema quando si decide di complicare la trama, sovraccaricandola con un episodio sinistro davvero di troppo. Peccato.