Riportare ai giorni nostri un classico a teatro è sempre un’arma a doppio taglio: se il lavoro è ben fatto, c’è la possibilità di far godere appieno degli antichi splendori il pubblico moderno, spogliando i classici di quell’aura museale che solitamente li circonda; ma è anche altrettanto alto il rischio di tradirli e storpiarli generando in sala un’ecatombe di attenzione e coinvolgimento. La Locandiera dalla regia di Andrea Chiodi appartiene decisamente al primo gruppo. Chiodi riesce con maestria a mettere in scena la storia di Goldoni con un adattamento classico che vanta però una posata originalità al servizio della narrazione, senza mai rischiare di strafare.
L’allestimento scenico si serve solamente di un unico, grande tavolo intorno, sopra e sotto cui ruotano le vicende; sullo sfondo e ai lati del palco decine di costumi dal sapore settecentesco [di cui si è occupata con grande successo Margherita Baldoni] fanno da cornice al gioco di Mirandolina e dei suoi spasimanti. Ed è proprio attraverso quei costumi che gli attori entrano in scena, si plasmano, modellano sé stessi e i personaggi che, a turno, sono chiamati ad interpretare.
I tre atti che compongono il testo – messo in scena in versione praticamente integrale – vengono introdotti dalla voce di Goldoni stesso che, interpretato ogni volta da un attore diverso, racconta ad un pubblico attento la genesi del suo testo più famoso. E lo fa servendosi di alcune poupettes, bambole o per meglio dire piccoli manichini costruiti a immagine e somiglianza dei personaggi che agiscono sulla scena e con cui gli attori stessi si relazionano in continuazione durante l’opera: ognuno di loro ha il suo doppio, l’umano e il “pupazzo”. Così quando Mirandolina sviene, o per meglio dire finge di svenire, i personaggi sventolano angosciati la bambola che la rappresenta, parlano con le loro riproduzioni, le toccano e gli cambiano di posto in base ai rapporti di potere in relazione alle scene a cui assistiamo. È così che Goldoni nelle sue memorie racconta di aver iniziato a scrivere i suoi testi: da bambino giocava con le sue poupettes e inventava storie.
I personaggi sono vivi, veri, godibili; esasperati eppure mai sopra le righe, cambiano e si plasmano in base ai costumi e alle parrucche che indossano – parrucche che qui vengono usate con la funzionalità che avevano le maschere per i comici dell’arte. I rimandi alla tradizione italiana della Commedia dell’Arte di cui Goldoni è il diretto successore sono evidentissimi: i cambi in scena, i personaggi-archetipi, la scenografia spoglia eppure utilizzata in tutte le sue possibilità. Andrea Chiodi restituisce [grande giubilo!] ai personaggi di Goldoni quelle “maschere” di cui il caro, vecchio Carlo li aveva spogliati destinandoli a finire, ahinoi, nel dimenticatoio.
Le interpretazioni degli attori sono tutte centrate e caratterizzate: spicca per esuberanza il Marchese di Forlipopoli interpretato dall’eccezionale Tindaro Granata, che fa dell’eccesso e della smoderatezza la sua firma, regalandoci un personaggio divertente, dolce, capriccioso e impossibile da non amare. La Mirandolina di Mariangela Granelli riesce ad essere forte e decisa senza finire mai per scivolare nella cattiveria; degno di lode il trasformismo di Caterina Carpio e Caterina Filograno che più di tutti gli altri sono chiamate a misurarsi con diverse interpretazioni, tutte riuscitissime [deliziosa la scena delle commedianti travestite da dame]. Emiliano Masala con il suo Cavaliere di Ripafratta è l’unico che ne esce leggermente sottotono e che, forse anche a causa della freddezza che contraddistingue il suo personaggio, fatica a trovare una giusta quadratura del cerchio.
Forte è la tematica gender all’interno di tutta la rappresentazione; se già La Locandiera è per eccellenza il testo che più restituisce dignità alla donna indipendente, scardinata dagli obblighi che la società impone alle figure femminili, Chiodi sceglie di accentuare questa sovversione esplicitando un interessante parallelo tra Mirandolina e Don Giovanni, facendole addirittura canticchiare le musiche dell’opera di Mozart. Le donne interpretano uomini, gli uomini somigliano alle donne, e così via in una spirale gender fluid che osserva il testo settecentesco da un’angolazione del tutto attuale.
Insomma, per concludere, ci troviamo di fronte a un riuscitissimo esperimento che inquadra La Locandiera da punti di vista anomali e nuovi senza però distaccarsi dal testo e dalle intenzioni di Goldoni.
Ancora una volta, il classico sa come rendersi moderno.
Irene Scialanca
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LA LOCANDIERA
Regia: Andrea Chiodi
Cast: Caterina Carpio, Caterina Filograno, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Fabio Marchisio
Drammaturgia: Carlo Goldoni
Teatro e date: Teatro Vascello, Roma – dal 28 gennaio al 2 febbraio