Alessio Liguori è un regista italiano che ha presentato in anteprima mondiale al Trieste Science+Fiction Festival 2019 il suo lungometraggio In the Trap, un horror claustrofobico.
Il giorno dopo essere stato suggestionato dal suo film l’ho contattato telefonicamente per intervistarlo.
[Giulio Golfieri]: Il film è stato prodotto in Italia, con un cast internazionale. È stata una scelta legata a un’esigenza artistica o distributiva?
[Alessio Liguori]: Nasce per avere una distribuzione internazionale, è stato quindi inevitabile che fosse in lingua inglese, inoltre è allo stesso tempo una scelta artistica perché la storia è ambientata in Inghilterra. Miriam Galanti, l’attrice che interpreta Sonia è italiana, per cui non sono contrario a girare anche in italiano.
[GG]: La tua regia è moderna ma allo stesso tempo legata anche a una tradizione nostrana. Cosa ti ha spinto a esprimerti mediante il cinema?
[AL]: Sognavo il cinema fin da quando ero piccolo come tutti più o meno, mentre i miei coetanei pregavano le madri affinché gli portassero al luna park io volevo visitare i set cinematografici. Nel 2000 sono arrivato a Roma e ho iniziato facendo molta gavetta sui set e nella pubblicità dove ho capito cosa significhi la disciplina. Il punto di svolta arrivò quando decisi di “affamarmi”, abbandonando i lavori ben retribuiti, per trovare il giusto percorso, che ha portato un gran cambiamento umano in me.
[GG]: Ho apprezzato molto il non regalare del nudo e del sesso gratuito nel film. L’accostamento erotico della scena tra Philip e Sonia, serviva ad allentare il senso del proibito e del peccato?
[AL]: Non ci sono scene gratuite. La figura di Sonia va a contrapporsi a quella di Catherin. Attraverso il sesso, in qualche modo toglie la protezione della religione da Philip. Ho utilizzato il Genere per raccontare il dramma di un uomo, più che una possessione demoniaca. Un uomo da sempre oppresso dalle figure femminili: l’affetto della madre, l’amore della fidanzata e la passione di Sonia.
[GG]: Hai impiegato cinque anni per trovare un produttore disposto a finanziarti il film, specialmente a costruire un’intera casa da zero per utilizzarla come set. Come hai presentato il film al tuo produttore?
[AL]: Di solito si dice: “Chi arriva è chi riesce a resistere”. Il progetto nasce nel 2013. Un amico mi diede la possibilità di girare un cortometraggio negli studi di Cinecittà, ma l’unica cosa che potevamo fare era realizzare un teaser. Nacque così l’idea base da cui poi avremmo sviluppato l’intero film. Abbiamo girato in un vecchio set abbandonato di Pupi Avati e successivamente abbiamo scritto la sceneggiatura per il lungometraggio. Le uniche cose di cui volevo avere il pieno controllo erano il cast e i capi reparto, che dovevano essere esordienti, e la realizzazione della casa. Il produttore Luigi De Filippis ha creduto in queste tre cose, e ha finanziato il film, senza co-produzioni o sostegni da parte di Film Commission.
[GG]: Se potessi avere o chiedere qualcosa dal cinema italiano che cosa vorresti o chiederesti?
[AL]: Bisogna fare squadra e non fare la cosiddetta guerra tra poveri, ognuno cerca sempre di portare avanti sé stesso, cercando il successo personale. Bisogna ricreare uno spirito di collaborazione come c’è stato fino agli anni ottanta. Tornare a fare cinema con amore. Uscire dalle dinamiche di condominio, perché il mondo è globalizzato, uscire dalle dinamiche di red carpet da salotto che non fa crescere il sistema. Nei reparti tecnici non possono lavorare sempre le stesse persone, è fondamentale riformare il sistema e iniziare a vedere questo mestiere come un lavoro, cominciando dalle scuole, che sono auto referenziali. Qui si fa cinema per andare alle feste, all’estero si va alle feste per fare cinema.
Giulio Golfieri [RATS]
Trieste, novembre 2019