Luca Ferri è un regista cinematografico di Bergamo con all’attivo più di dieci film tra cortometraggi, medi e lunghi. Nel 2015 proietto il suo film Kaputt Katastrophe [2012] in una mia rassegna a Venezia. Nel 2016 il film Una società di servizi [2015], lo stesso anno lo incontro alla Biennale del Cinema di Venezia dove presenta in Concorso il cortometraggio Colombi [2016]. Dopo avergli realizzato una video monografia nel 2018, lo reincontro nuovamente a Venezia in veste di giornalista.
[Giulio Golfieri]: Ciao Luca.
[Luca Ferri]: Carissimo.
[GG]: Ci siamo lasciati nel 2018 con il cortometraggio Ab Ovo [2017]. Dopodiché hai realizzato i lungometraggi Dulcinea [2018], Pierino [2018] e La casa dell’amore [2020]; entrambi ambientati in un appartamento. Perché scegliere l’involucro abitativo come location?
[LF]: Mi dava la possibilità di avere dei limiti ulteriori oltre a quelli economici. Girare esclusivamente all’interno di tre abitazioni conferisce una compattezza formale e visiva dove poter tenere tutto sotto controllo. Non per ultimo la dimensione raccolta, avere pochi elementi a disposizione mi ha permesso di fare un ragionamento molto diversificato, come lavorare sulle minuzie e sui dettagli.
[GG]: In Dulcinea c’è assenza di dialogo e la composizione sonora fa da colonna al film. In Pierino è per la maggior parte un flusso monologato del protagonista, ne La casa dell’amore il parlato e il musicato si bilanciano. Possiamo definire questo trittico un’evoluzione della tua ricerca sul suono?
[LF]: Domanda interessante. Non ho effettivamente pensato a questo aspetto. Ammetto di non avere una particolare sensibilità al suono, sono un animale letterario e visivo. Nell’ultimo lungometraggio sono rimasto colpito dal lavoro svolto sul suono da Duccio Servi che mi ha fatto capire quanti dettagli e sfaccettature sonore possono divenire importanti per un’opera. Continuo a ribadire l’importanza della scelta dei collaboratori all’interno di un film, soprattutto se con un budget ridotto.
[GG]: In Pierino, girato su supporto VHS, racconti un anno di vita di un uomo. Come hai impostato la scrittura e la regia lungo questo arco temporale?
[LF]: Sono partito da un’idea di cinema. Poteva essere un film senza Pierino. Dietro alla storia di Pierino c’è una struttura molto rigida che potrebbe essere replicabile n volte con qualsiasi altra persona. È un lavoro che funziona grazie a questa struttura a “gabbia” poi riempita con un personaggio. Non a caso ora stiamo lavorando su un altro film sempre con una struttura annuale.
[GG]: La casa dell’amore è probabilmente il tuo lungometraggio più definito e sensibile nella tua filmografia. Come nasce il soggetto del film?
[LF]: Avevo necessità di chiudere la trilogia, e avevo in mente di fare un lavoro che avesse la casa come centro focale non solo della vita privata ma anche della vita lavorativa di una persona. Ho iniziato a pensare a tutti i lavori che potessero essere svolti banalmente in casa. Siamo incappati in una sex worker, ma potevamo incontrare anche con una persona che non avesse nulla a che vedere con il mondo della prostituzione o della comunità LGBT. Il cuore del film non è questo, ma il concetto di domus.
[GG]: La protagonista del film è un transessuale che si prostituisce nella sua casa di Milano. Quale è stato il confine tra il reale nascosto e il reale ripreso?
[LF]: Interessante domanda. Ho fatto un lavoro molto lungo di conoscenza reciproca con Bianca per acquisire la sua fiducia e conoscerla per quello che poi è realmente anche nel film. Una persona che dona tutta se stessa. Ho conosciuto anche tutte le persone che fanno parte di questo suo mondo, i suo amici, i clienti e quant’altro. Abbiamo svolto un lavoro successivo di epurazione perché c’erano anche delle situazioni più forti che abbiamo deciso di non inserire, concentrandoci su alcuni clienti veri che poi recitano se stessi nel film. Invece una seconda parte di clienti gli abbiamo ricostruiti successivamente sulla base dei racconti di Bianca, creando così un cortocircuito tra il vero e il falso.
[GG]: Quali legami hai instaurato con Bianca e Pierino?
[LF]: Sono stati due lavori che mi hanno preso parecchio tempo. Pierino l’ho visto per cinquantadue giovedì per un anno intero. Un appuntamento cadenzato che influiva sul mio privato. Banalmente non potevo viaggiare, non potevo andare ad un festival a presentare un film. Un approccio di questo tipo crea inevitabilmente dei forti legami.
[GG]: Quest’anno presenti alla Mostra di Venezia il cortometraggio Sì [2020]. Come mai hai portato nuovamente un corto?
[LF]: Ne abbiamo disquisito a lungo nei nostri incontri, io non credo che un cortometraggio sia esponenzialmente meno rilevante di un lungometraggio. Quando inizi un nuovo lavoro non hai ancora l’idea della durata. Per esempio con Andrea Mieli, il montatore, stiamo facendo un lavoro intorno alla figura del Divino Otelma, e noi ad oggi non abbiamo la più pallida idea di cosa sarà questo lavoro. Sì apre una pentalogia, tre cortometraggi già girati, e due lungometraggi sul concetto di assenza.
Giulio Golfieri [RATS]
Venezia, settembre 2020