Qualche anno fa [esattamente nel 2016], complice la nuova ondata di Mostri Classici che tornavano ad infestare le sale cinematografiche con remake e rielaborazioni di film e icone cult della cultura horror, noi di InGenereCinema.com abbiamo pensato di raccontare con brevi saggi monografici il passaggio di licantropi, vampiri, mummie e creature sospese tra la vita e la morte dal vecchio al nuovo millennio.
Cosa rimaneva immutato rispetto alla tradizione? E cosa, invece, si trasformava per riuscire a risultare appetibile alla nuova generazione di spettatori e, ancor più importante, per cercare di trasporre in chiave orrorifica i mali vissuti dalla società contemporanea e da questa originati?
A chiusura di questo 2020, anno quanto mai nefasto che questa realtà ha visto modificarsi in modo radicale, utilizziamo l’uscita [in piattaforma, vista il triste andazzo per le sale, in occasione della notte di Halloween] del Le Streghe di Robert Zemeckis, per ritornare ai nostri speciali e raccontare le mutazioni di un’icona horror che avevamo tralasciato: la strega!
Raccontarla in un anno che sarà ricordato nella storia mondiale a causa di una pandemia è una coincidenza macabra e magica allo stesso tempo.
Una delle accuse rivolte alle “vere” streghe, all’interno dei tribunali dell’Inquisizione, era proprio quella di aver causato la morte di uno o più abitanti della cittadina o, ancora peggio, di aver scatenato un’epidemia. Le confessioni venivano estorte da Madre Chiesa con sistemi di tortura talmente violenti ed estremi da far impallidire anche l’ingegnoso Jonathan Kramer, alias Jigsaw.
Peccato che le donne – e in minor numero gli uomini – accusate di essere scese a patti con il demonio, rinnegato dio e la sua chiesa e scegliendo il male, fossero del tutto innocenti: reiette della società, malate, depresse, magari curatrici o semplicemente membri molto invidiate di una piccola comunità, che finivano nolenti per confessare gli orrori e le assurdità di cui erano accusate pur di porre fine alle torture inumane.
Estremamente interessante anche in letteratura e al cinema, la figura della strega porta con sé un carico di folklore popolare e il duale e ipnotico gioco d del bene e del male, capace di essere trasposto in modo affascinante e funzionale a livelli diversi, dalla fiaba didattica alla storia horror più terrorizzante, con streghe che incarnano il rapporto tra femmineo e prodigioso in modalità sempre differenti, mostrando un ventaglio di tonalità davvero ricco, da quelle colorata da una malvagità oscura, a quelle più tenui, delicate e positive.
Lo speciale che abbiamo strutturato ha un’architettura particolare: racconteremo le streghe del nuovo millennio attraverso i remake di due film cult, che hanno lasciato un segno importante nella filmografia stregonesca, pur viaggiando su strade narrative e di messa in scena davvero differenti. Creeremo un mondo liminale e parallelo introducendo il nuovo millennio proprio con due focus su questi titoli genitori: Suspiria di Dario Argento [1977] e Chi ha paura delle streghe? di Nicolas Roeg [1990]. Cercheremo poi di fotografare il passaggio della strega nel 2000 con due titoli che hanno costituito un esempio forte tanto da diventare identificativi di un’epoca, di un modo di intendere il cinema, ancor prima che il cinema horror: parliamo di The Blair Witch Project – Il mistero della strega di Blair di Daniel Myrick e Eduardo Sànchez [1999] e The Witch di Robert Eggers [2015].
Storie stregonesche che dimostrano come la figura della magara [e il bagaglio folklorico che si porta dentro] riesca con facilità ad adattarsi e ad attecchire su terreni tanto differenti, riuscendo a produrre frutti sempre nuovi e succulenti. Da assaggiare di certo col timore che siano avvelenati.
Noi siamo pronti con i nostri “C’era una volta…”.
SUSPIRIA di Dario Argento… e altre Madri
Tre sono le Furie, tre le Parche, tre le Grazie. Una serie di trinità sospese tra il sacro e il mitologico che s’apparenta alla triade oscura che abita la filmografia di Dario Argento: le tre madri, streghe, presenze oscure e malefiche che non rappresentano altro che una concretizzazione, una e trina, dell’Oscura Signora, la Morte.
Suspiria, il primo capitolo di una trilogia orrorifica che percorre l’intera carriera di Dario Argento e che la segna a tal punto da marchiare il regista romano come “regista horror”, nonostante questo sia in effetti il suo primo passo all’interno del più cupo dei Generi, è ispirato al visionario Suspiria De Profundis dello scrittore inglese Thomas de Quincey. A questa fonte di ispirazione letteraria, che regala davvero unicamente il là a un mondo incubotico che rimarrà immortale nella storia del cinema, si andò a sommare l’interesse del regista nel voler raccontare a modo suo le streghe e la stregoneria e le conoscenze in materia misterica di Daria Nicolodi.
Argento scelse di ambientare Suspiria in un’accademia di danza per rimandare alle congreghe in cui si riunivano le streghe, ma anche perché la danza è l’arte più strettamente collegata al mondo misterico. Ma c’è di più: la scuola avrebbe dovuto avere, inizialmente al suo interno delle studentesse bambine. La stessa protagonista sarebbe dovuta essere molto più giovane. Un vero e proprio viaggio di formazione che avrebbe condotto una piccola Alice all’interno di un mondo tutt’altro che pieno di meraviglie. Il passaggio dai sogni dell’infanzia all’età adulta, scandito dall’ansimante respiro della Morte, gelido fiato sul collo dello spettatore che, incoscientemente, viene comunque calato all’interno di un mondo “altro”, dove l’infanzia è suggerita in maniera subliminale, attraverso i modi spesso infantili delle giovani danzatrici, il loro rapporto conflittuale con gli adulti e un attento studio scenografico che, ad esempio, deforma le porte per poter spostare in alto le maniglie.
Nel percorso in discesa verso l’inferno, all’interno della confraternita, la stessa Morte diventa sinonimo della strega Madre, così succede anche nei capitoli successivi della trilogia, fin quando proprio la Nera Signora si presenta ossuta nel secondo film della trilogia argentiana, Inferno, con un gioco visivo che trasforma uno specchio in una porta d’accesso per il misterico.
Mater Tenebrarum, la Madre delle Tenebre, è la più giovane delle tre madri; Mater Lacrimarum, la Madre delle Lacrime, è quella più bella; Mater Suspiriorum, la Madre dei Sospiri, è la più anziana. Elena Markos, la Regina Nera, l’unica di cui è dato modo di conoscere un nome e uno spiraglio di storia biografica che la vede indesiderata immigrata greca, scacciata da molti paesi europei nei primi decenni dell’anno 1000 proprio a causa delle voci che la volevano invischiata in “quella cosa che ovunque sempre da tutti è creduta”: la magia.
Suspiria è la più riuscita delle fiabe contemporanee, perché racconta con modernità e pluralità di linguaggi [anche quello visivo, mutuato dalle luci e dai colori di Luciano Tovoli, importante almeno quanto quello narrativo, così come succede con la colonna sono dei Goblin] una qualcosa di semplice e universale come la Paura, quella vera: infantile e irrazionale, immotivata, che è anche fatta di uno strano senso di fascinazione, nella realtà come nella finzione.
A partire da questo nucleo, Suspiria diventa un oggetto misterico, costruito su più livelli, tanti dei quali nascosti, interni, simbolici, senza però trascurare un’esteriorità epifanica, fondamentale, che avvolge chi osserva in un mondo colorato innaturalmente di tinte calde e sature, che riescono a farsi ponte di comunicazione con un mondo “altro” e stratificato, che avrebbe avuto trent’anni per raccontarsi, passando attraverso gli ultimi attimi della cultura psichedelica, il barocco anni ’80 e l’horror vacui del nuovo millennio.
Una fiaba sulla morte che ha, però, tre vite e diventa tre storie nere contenute all’interno di un libro-feticcio che raccoglie gli scritti di Emilio Varelli, l’architetto-occultista che costruì le loro dimore a Friburgo, New York e Roma.
Ma in queste fiabe c’è ancora tanto: la stretta connessione dell’occulto al mondo delle arti e del sapere. Con la danza nel primo capitolo, come abbiamo visto, ma anche con la musica e la poesia nel secondo, l’archeologia nell’ultimo… e ancora la distruzione fiabesca del mondo dell’orco, la sola cosa che può diradare la nebbia di paura infantile creata da Argento, con le fiamme per i primi due film e con l’acqua, che è “specchio” e funge da passaggio da un mondo all’altro: da quello dei vivi a quello della Morte nella prima parte di Inferno e viceversa nelle ultime scene de La terza madre.
La paura, quella immotivata, infantile e più forte, poi, s’amplifica quando – da figli – si concretizza che la trinità femminile voluta da Argento nega la sua stessa femminilità rinnegando – da Madre – il suo poter creare la vita per diventare, al contrario, il Male, nient’altro che quello.
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CHI HA PAURA DELLE STREGHE? di Nicolas Roeg
Di tutt’altro tipo, ma come Suspiria onorato da un remake proprio in questo 2020 di cui parleremo in coda al pezzo, Chi ha paura delle streghe? [1990] è un film fantastico tinto di orrore, ma pensato per gli spettatori più giovani. Dentro ci sono streghe [ovviamente], aggressioni verso minori, deformità, pozioni magiche, orribili trasformazioni, mutazioni di umani in animali, dramma e perdita, ma il tutto assume toni più pacati e “digeribili”, pur trattandosi ancora una volta di una storia di formazione e del diradarsi dei dolci e inebrianti fumi dell’infanzia, per passare ad un’età più consapevole attraverso lo scontro con l’incubo.
Il protagonista è il piccolo Luke, orfano di entrambi i genitori e affidato alla nonna, che pare saperne davvero più di qualcuna rispetto alle arti magiche e che da sempre ha lavorato per mettere in guardia il piccolo rispetto all’esistenza di malvagie streghe capaci di mascherare la mostruosità del proprio corpo e di insinuarsi nel tessuto delle piccole e grandi comunità di normali umani con un solo fine: uccidere i bambini, che sono la cosa che più odiano al mondo!
Nicolaes Roeg [A Venezia… un dicembre rosso shocking, L’uomo che cadde sulla terra] ci racconta streghe orribili ma buffe – che usano parrucche per celare le loro teste calve, guanti e scarponi per coprire le deformità dei loro arti, perfino maschere per non mostrare le loro orribili sembianze – malvagie ma goffe, e così non potrebbe non essere, visto che il film è tratto dal romanzo per ragazzi Streghe di Roald Dahl.
Si parlava di elementi in comune tra il film stregonesco che abbiamo usato come capostipite, nel nostro percorso che non punta assolutamente alla completezza enciclopedica. A quelli già elencanti sarebbero da aggiungere la presenza di un congregazioni di streghe, in questo caso provenienti da diversi Paesi e di una Suprema [Anjelica Huston] che le comanda e affida loro la sua nuova scoperta e una nuova missione.
Anche in questo caso, inoltre, la guerra tra le cattive streghe e le loro giovani vittime si svolge tra le mura di un enorme edificio [qui un grande albergo]; i giovani protagonisti si dovranno avventurare all’interno di una location dalle dimensioni “innaturalmente” deformate rispetto alla loro fisicità e dovranno rinunciare alla normalità della loro giovane esistenza per riuscire a mettere fine all’incubo e ritornare a “veder le stelle” fuori dalla tana del Mostro.
Ma se tanti degli ingredienti mescolati sembrano essere gli stessi, qui a mancare [volontariamente, sia chiaro] è il senso stesso di magia, di esoterico, di misterico. Fondamenta del primo Suspiria e elementi che ritroveremo più avanti in almeno un altro dei titoli presi a modello, il The Witch di Eggers.
Qui quel mondo d’ombra, di sconosciuto e di paura sottile viene sostituito da un mood da commedia horror, da una parte resa spaventosa dai trucchi e dai pupazzi di Jim Henson, dall’altra ammorbidita da un finale e una morale davvero pensati per i più piccoli. Per fortuna il resto della storia si rivolge ai giovani aspiranti Amici dell’Horror cercando di rapportarcisi fornendo loro stimoli visivi e narrativi dignitosi anche per uno spettatore di età adulta, creando così un’atmosfera di certo ludica e pacifica, ma non per questo poco ammaliante.
Da ricordare la trasformazione dei giovani protagonisti in topi, soprattutto le fasi intermedie della mutazione e, di certo il momento cult del film, la “svestizione” della Suprema che mostra per la prima volta agli spettatori il suo aspetto reale nella sala dei convegni.
Come ci piace sottolineare, a ragione, di horror si può anche ridere e non è un caso che uno dei sotto-filoni più frequentanti a inizio millennio sia stata proprio la zomedy, che ha unito [più di una volta in maniera davvero buona] lo zombie movie e la commedia. Qui Roeg lo fa con l’horror stregonesco e aggiunge come terzo ingrediente la favoletta per bambini, di quelle placide e senza troppa paura. La pozione ha un buon sapore e l’antro alchemico, per fortuna, non esplode!
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THE BLAIR WICHT PROJECT – IL MISTERO DELLA STREGA DI BLAIR di Daniel Myrick & Eduardo Sánchez
Senza dubbio un nuovo classico quello di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez che ebbe il merito di traghettare nel nuovo millennio l’immaginario esoterico e misterioso delle streghe.
Un mockumentary che con una efficacissima operazione di marketing mostrò all’intero mondo come il cinema stesse cambiando e quanto la comunicazione e i nuovi media potessero essere veicolo per un successo davvero sorprendente.
La storia la ricorderete tutti, Amici dell’Horror: un gruppo di tre studenti decide di realizzare un documentario sullo strano caso del serial killer Rustin Parr che negli anni quaranta uccise sette bambini nel villaggio di Burkittsville in Maryland, anticamente conosciuto come Blair.
Una volta arrestato, l’assassino confessò di aver commesso quei delitti sotto l’influenza demoniaca del fantasma della Strega di Blair. Da qui una serie di suggestioni e ipotesi che i nostri studenti di cinema provano a indagare nel loro documentario di diploma. Ma la maledizione della strega colpisce ancora e i tre aspiranti registi spariscono senza lasciare traccia. O meglio, qualche traccia c’è eccome!
Ore e ore di girato nei boschi dove la Strega dimora che Myrick e Sánchez hanno ritrovato, montato e distribuito, spacciando ogni cosa come assolutamente autentica.
Il film fu un successo al botteghino in tutto il mondo e un esempio straordinario della potenzialità di suggestione che il cinema possiede: è tutto finto, ma sarà reale se ci crederai.
The Blair Witch Project ebbe il merito di riproporre la figura della strega nel nuovo millennio attraverso un linguaggio inedito per il tempo e una gestione della comunicazione lungimirante: se il format del “finto” documentario non si può certo considerare come una grande innovazione, dati gli illustri precedenti degli anni settanta [uno su tutti Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, grande Amico dell’Horror], la vera forza del progetto fu la capacità dei due registi di creare un mito prima ancora della realizzazione della pellicola stessa.
Spacciare come verità gli artifici più evidenti, creare un mostro di culto senza mostrarlo mai – come la Strega di Blair, appunto – e sopperire alle mancanze narrative e formali con una comunicazione che oggi definiremmo “virale”. Davvero un esempio incredibile di quanto il cinema sia l’arte post-moderna per eccellenza e di come tutto si modifichi e nulla si distrugga in materia di Horror.
Luca Ruocco + Paolo Gaudio