America,1630: una famiglia puritana assai timorata di dio viene allontanata dalla propria comunità ed è costretta a ritirarsi ad una vita di solitudine e sacrificio, in una vecchia fattoria vicina ad un grande bosco del New England. Le giornate dei due coniugi e dei loro figli continuano ad essere cadenzate tra sessioni di preghiera, e fatica nei campi e nella nuova abitazione. Per destabilizzare, però, il rigido equilibrio su cui si regge la vita dei quattro, si fa sempre più presente e concreta l’ombra della Paura che, per i due genitori, sembra avere anche un luogo di preciso di provenienza: il bosco alle spalle della nuova abitazione, dove ai cinque figli è assolutamente vietato avvicinarsi, in quanto pare sia abito da una malvagia strega.
Quando il bambino più piccolo, affidato alle cure della sorella adolescente Thomasin, scompare nel nulla, la realtà della famiglia inizia a degenerare e in poco tempo arriva a capovolgersi: l’unità familiare sembra corrotta e persa per sempre. La madre non riesce a nascondere il rancore provato verso la figlia, che non solo smarrito l’ultimo frutto del suo ventre, ma è anche quasi una donna ed è, quindi, pronta a usurparne il posto. Anche Caleb, fratello dodicenne sulla soglia della pubertà, inizia a guardare verso la sorella maggiore con occhi diversi: quelli biechi e lusingatori del desiderio. Come se non bastasse, i due gemelli, ora drammaticamente ritornati ad essere i figli minori della coppia, giocano sempre più spesso in modo strano e misterioso, canticchiando filastrocche che vedono protagoniste il nero caprone di proprietà della famiglia.
Che strega ci racconta Robert Eggers, voce più che autorevole dell’orrore contemporaneo, nonostante abbia firmato la regia i soli due titoli a tema? Ancora una volta la magara si fa concretizzazione corporea del senso di Paura che allora come ora, anche se per ragioni e in percentuali indiscutibilmente differenti, è paura della morte, della povertà, della malattia, del non compreso e dell’inaccettabile.
Né la famiglia, né la casa, né tantomeno dio possono farsi scudo e proteggere dagli attacchi di qualcosa che cresce all’interno di un cuore o di una mente e riesce a infettare l’anima e il corpo anche di chi è vicino.
Quello di The Witch è un orrore misterico agli antopodi del Genere, che ne colora il finale epifanico, ma che va cercato con attenzione e mente aperta nel resto del film. La strega del bosco, che esista o meno, che abbia ucciso il bambino rapito per sbriciolarne le ossa e cospargere la sua pelle nuda con il suo sangue o che sia solo una spaventosa immaginazione dei protagonisti più giovani, fattasi via via più concreta e ossessionante, non è il centro del film, che invece mira a mostrare con quanta facilità possa smontarsi dall’interno, auto-distruggersi, un nucleo sociale. Uno sfaldarsi immotivato e senza ritorno, che trova sviluppo [se felice o meno non ci è dato realmente di saperlo] solo nell’ingresso della piccola Thomasin, futura donna, futura madre [futura strega?], all’interno di un nucleo sociale diverso [né migliore, né peggiore]. La futura donna può farlo solo quando il suo nucleo di origine è del tutto dissolto e lei è, finalmente, spaventata, libera, adulta.
E poi ci sono i simboli che sembrano nascondersi ovunque, nei luoghi, negli animali, ma che forse sono solo nella penna di chi racconta o nell’occhio di chi guarda.
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SUSPIRIA di Luca Guadagnino [2018]
Fare un remake è di per sé una sfida. Se poi il rifacimento in questione è un capolavoro del Genere nobile, capite da voi cari lettori di InGenereCinema.com che da “sfida” si passa immediatamente a “impresa straordinaria”. Se aggiungiamo, inoltre, che il film è Suspiria di Dario Argento, ebbene, tale impresa straordinaria potrebbe essere definita anche pericolosa, rischiosa, imprudente, inutile e perfino stupida.
Tuttavia, Luca Guadagnino è un cineasta troppo intelligente e sveglio per non aver calcolato ogni rischio in questa impresa. Infatti, il suo Suspiria si allontana così nettamente dall’originale da sembrare un film del tutto inedito: politico e freddo, viscerale e morboso, elegante e poco – forse, troppo poco – orrorifico.
Del soggetto di Dario Argento e Daria Nicolodi, il regista di Chiamami col tuo Nome conserva solo l’incipit, ovvero l’arrivo a Berlino dell’americana Susie Bannion giunta in Germania per unirsi alla prestigiosa compagnia di ballo Markos Tanz. Nulla di più dell’Horror onirico e psichedelico del 1977.
O forse no: in effetti l’anno di uscita del capolavoro argentiano torna prepotente in questo remake. Proprio da quella data è partito Guadagnino, realizzando sei atti e un epilogo che sulla trama originale – stravolta, ripetiamo – innesta questioni legate alla RAF e alla Banda Bader-Meinhoff, oltre a quelle sul senso di colpa e di vergogna che stavano e stanno ancora lì, nel retro-pensiero del popolo tedesco, per quanto avvenuto negli anni del Nazismo e dell’Olocausto.
Un film complesso, elegante, disturbato e decadente questo nuovo Suspiria, così come le streghe che lo animano. Creature rituali ed estremamente legate alla tradizione, intesa come rispetto della forma e delle regole. Unite in un’organizzazione molto più simile a quella di un partito politico, piuttosto che a una di tipo familiare.
Ci sono correnti, differenze di vedute e di approcci all’ideologia che le lega e che da troppi anni non subisce alcun cambiamento, perché cambiare espone a rischi e a pericoli che potrebbero compromettere la loro stessa sopravvivenza.
Le streghe di Guadagnino sono spaventate da ciò che potrebbe succedere e che sta arrivando ma che proprio non riescono a sopportare: la fine di un’epoca e di un ricambio generazionale. Aspetto quest’ultimo molto attuale e contemporaneo che dona a questa pellicola uno spessore davvero ammirabile.
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Un’evidenza interessante di questo nuovo millennio è il ritorno al cinema delle opere di Roald Dahl. Prima Tim Burton, poi Steven Spielberg e infine Robert Zemeckis nel corso degli ultimi anni hanno realizzato adattamenti dei romanzi più celebri dello scritto britannico. Come potete intuire, cari Amici dell’Horror, la nostra attenzione si è riversata sull’ultimo in ordine temporale di questi progetti, vale a dire, Le streghe del vecchio Bob.
Con un adaptation estremamente fedele al racconto di Dahl, il regista della trilogia di Ritorno al futuro ripropone questa avventura fantastica allontanandosi dal precedente Chi ha paura delle streghe? del 1990 [di cui abbiamo parlato nella prima parte di questo formidabile focus sulle streghe del nuovo millennio].
Lo fa utilizzando tutte le sue capacità da grandissimo cineasta, mescolando l’animazione in computer grafica con le riprese in live action, dimostrando – qualora ce ne fosse bisogno – la straordinaria abilità formale e di conoscenza del linguaggio cinematografico. Tale attitudine, tuttavia, è anche il limite dell’ultima fatica di Zemeckis: il desiderio di realizzare un prodotto così formale, tecnico e visivo finisce per togliere profondità alla vicenda negando spessore ad alcune visione dark e fantasmagoriche che risultano, ahimé, superficiali o peggio ancora innocue.
Lo stesso si può dire delle streghe, in particolare, della Strega Suprema interpretata da Anne Hathaway: se l’intuizione di Roal Dalh di concepire le streghe come una sorta di ordine professione con uno statuto, un rappresentate legale e una convention annuale risulta ancora irresistibile, la cartoonizazione eccessiva del loro leader allontana lo spettatore e rende meno godibile e sostenibile l’esperienza narrativa in generale. Mirare costantemente all’eccesso sortisce l’effetto opposto, dunque, rendendo il film asettico, incapace di andare oltre la superficie sminuendo il gran mestiere di chi dirige, di chi ha scritto ancora prima, ma anche – bisogna ammetterlo – di chi interpreta.
Un vero peccato per un film che rimane un ludico esperimento estetico a tratti godibile e orrorifico, ma decisamente frettoloso e mai inciso.
Luca Ruocco + Paolo Gaudio