[QUEST’ARTICOLO CONTIENE SPOILER!]
Sto pensando di finirla qui, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di lain Reid, segna finalmente il ritorno di Charlie Kaufman alla regia… e oseremmo dire: che ritorno!
Trama
La storia che ci viene mostrata, inizia con il lungo flusso di pensieri di Lucy [Jessie Buckley], che è tormentata dall’idea di “finirla qui”. È in viaggio insieme al suo ragazzo Jake [Jesse Plemons], per andare a conoscere i suoi genitori, i quali abitano in una fattoria dispersa nel nulla.
Contemporaneamente, senza alcun apparente legame logico tra le scene, ci viene mostrata la vita di un anziano bidello.
IL VERO SIGNIFICATO
“Non cercare di capirlo, guardalo”
Come suo classico, Charlie Kaufman, per tutta la durata della pellicola, confonde totalmente le idee degli spettatori, mostrando loro solamente un “verso” [quello sbagliato] in cui guardare il film, ma distruggendolo man mano poco dopo. Gli spettatori si ritrovano così in un “deserto” privo di strade da seguire.
Non c’è un vero e proprio filo logico [o meglio c’è ma lo si intuisce solamente verso il finale], tanto che il vero protagonista della pellicola non è neanche quello che ci viene mostrato.
La maggior parte del film viene raccontata il tutto dal punto di vista di Lucy, con molti riferimenti alla sua vita, il tutto incorniciato dalla narrazione dei propri pensieri, ma solamente alla fine ci viene mostrato il vero significato di quelle scene apparentemente senza senso e completamente fuori luogo, andando così a ricreare quel filo logico che inizialmente sembrava mancare.
Solamente nei minuti finali, si riesce a capire che ciò che è stato finora visto, è in realtà un riepilogo della vita di Jake, l’anziano che appare in alcuni frammenti del film, il quale in procinto di morte, ripercorre tutta la sua vita rimpiangendo tutte le opportunità perse, i disagi e le persone importanti della propria vita.
La follia di Kaufman consiste proprio nell’idea di base, riscontrabile dietro le quinte del film: riuscire a rappresentare il contorto labirinto della mente umana; cosa che già Nolan aveva provato a fare con Inception, ma non in una maniera così “pura” [è assai probabile che Christopher Nolan abbia apprezzato questo film].
Il film appare infatti come un turbinio incontrollato di ricordi che trovano il loro centro fisso nelle figure di Lucy e Jack.
Durante una prima visione è quasi impossibile capire tutto questo.
Il regista infatti, non dà allo spettatore nessun punto di riferimento a cui aggrapparsi, contorcendo continuamente spazio e tempo, tanto che anche la protagonista sembra essere confusa durante la successione degli avvenimenti, di fatti, anche il suo nome e i suoi stessi ricordi vengono continuamente modificati.
Questa generale complessità seppure faccia rientrare Sto pensando di finirla qui all’interno del prototipo del “cinema rompicapo”, “pseudo-Genere” non sempre amato dagli appassionati, è il vero punto di forza della delicata opera di Kaufman in quanto offre una libera ma parziale interpretazione delle vicende.
Vengono infatti trattate tematiche filosofiche ed esistenziali (come “il senso della vita”) che immettono lo spettatore in un turbinoso vortice dal quale è difficile uscire ma che allo stesso tempo mettono ben in luce le problematiche interiori del protagonista.
Esse trovano riscontro nei magnifici dialoghi che, nonostante la loro lunghezza e le tematiche trattate, non sono mai fuori luogo e pesanti, anzi, offrono allo spettatore una miriade di punti di riflessione.
UN OTTIMO THRILLER PSICOLOGICO
Per quanto riguarda il lato emotivo, non c’è nulla da dire: Kaufman riesce a coinvolgere lo spettatore in un modo alquanto fine e spensierato, aumentando gradualmente il reparto emotivo che si articola come un grande climax.
L’intento del regista di dare al tutto una connotazione cupa, misteriosa, è riuscito alla grande. Fin dall’arrivo dei due alla casa dei genitori di Jake, si instaura durante la visione un senso di inquietudine, quasi di paura che contribuiscono ad oscurare la “visione” dello spettatore. Caratteristiche tipiche del Genere thriller ma che, in questo caso, vengono portate all’ estremo raggiungendo degli apici riscontrabili all’interno del cinema dell’orrore.
Spicca sicuramente l’interpretazione di Jesse Plemons [Jake] che è riuscito a mantenere una continua aurea di mistero, mascherando la sua reale personalità, ma andando a rispecchiare a pieno quella che è la sua vera natura: un anziano con disagi mentali.
Ma anche quella di David Thewlis [il padre] e Toni Collette [la madre] che sono riusciti a mettere in mostra molte sfaccettature caratteriali dando al pubblico una parziale causa dei disagi di Jack.
Fantastica è la fotografia di Łukasz Żal che permette di accentuare anche i minimi dettagli sul set che fungono per lo spettatore da unici appigli su cui aggrapparsi.
Una menzione d’onore va fatta sicuramente all’eccellente montaggio di Robert Frazen, che è riuscito ad incastrare i vari pezzi con una precisione chirurgica.
Molto interessante è anche la scelta di utilizzare un aspect ratio 4/3 che richiama i vecchi VHS degli anni ’80 nonché l’idea, seppure improbabile, che il tutto sia un “semplice” ricordo.
Per concludere un’opera di questo spessore, Charlie Kaufman, ha pensato bene di deliziarci con un finale aperto che dia libero sfogo ai pensieri e alle emozioni di ognuno.
Dopo 120 minuti di confusione, tutti si sarebbero aspettati un finale riassuntivo, che spieghi tutto ciò che si è visto finora, e che vada a chiarire tutte le lacune e i dubbi generati dalla visione. Ma ciò non succede.
Dopo la meravigliosa scena di danza che va a riassumere l’intera vita di Jack fino alla sua triste morte, il protagonista riceve un immaginario Oscar sulle note di Lonely Room da Oklahoma!, pronunciando il discorso di chiusura di A Beautiful Mind.
Ringraziamo il team di InGenereCinema per averci dato l’opportunità di scrivere questo Guest post!
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