In un’epoca in cui una casa infestata non fa più effetto, cos’è che può ancora terrorizzarci a morte? L’uomo, senza ombra di dubbio. Non c’è niente di più terrificante che pensare ad una o più persone che possano rapirci, torturarci e sottoporci ad ogni tipo di umiliazione possibile.
Da questo preciso punto di vista prende le mosse The Badman, horror statunitense del 2018 scritto e diretto da Scott Schirmer.
Mary ha avuto in eredità la casa della nonna, già al tempo utilizzata come bed&breakfast; arriva nella casa con PJ, il fidanzato, per dare una nuova vita alle stanze prima di poter proseguire l’attività di famiglia. Hanno deciso di non aprire a nessuno finché non sarà tutto pronto, ma suona un gentilissimo signore che dice di aver già alloggiato lì quando la nonna era ancora in vita. I due alla fine decidono di ospitarlo per una notte, non sapendo a cosa vanno incontro. L’uomo è in realtà un sadico torturatore che rapisce ragazzi per assoggettarli come schiavi sessuali e venderli poi al migliore offerente.
Mentre il pitch del film sembra assolutamente perfetto, con tanto di suggestioni dai più disparati film – su cui torneremo dopo – la realizzazione purtroppo lascia molto a desiderare. Come anticipato, se c’è un modello narrativo su cui ancora si può dire moltissimo, forse all’infinito, è proprio l’horror che non si basa sul sovrannaturale, ma sulla crudeltà dell’essere umano. L’uomo è ormai il nostro unico incubo e nemico per eccellenza. Su questa ferma convinzione hanno lavorato i registi come Eli Roth e Pascal Laugier.
Questa volta, dunque, proviamo a giocare a ruoli inversi e capire prima cosa non va nella pellicola, che purtroppo in questo caso è l’aspetto più rilevante.
Già sulle prime siamo coinvolti in una storia dal peso registico totalmente assente, con una messa in scena che ricorda film casalinghi a budget nullo; molto spesso questo tipo di estetica richiama il fortunatissimo mockumentary, con l’evidente intento di rendere ancora più tangibile l’immagine e portare lo spettatore a dare una credibilità maggiore alla pellicola; qui invece l’intera composizione non approda da nessuna parte e, con una fotografia del tutto piatta e una distribuzione delle luci del set a volte completamente errata, si ha solo l’impressione di dare un’occhiata al filmino amatoriale del proprio cugino con smanie da regista.
Un vero peccato perché essendo l’antagonista un clown e avendo costretto Mary a vestirsi da bambola, le premesse per un’estetica piacevolmente grottesca c’erano tutte, mentre invece qui assistiamo alla morte del colore. La stessa cosa, purtroppo, si può dire anche della regia, che cerca un input autoriale nei punti di vista decentrati e nelle inquadrature desolate nel tentativo di costruire una scena atipica, ma la mano inesperta del regista fa sì che venga meno quest’interpretazione. Significativa, in tal senso, è la ripresa dal basso nella camera di Mary e PJ: tutta la scena propone solo l’inquadratura delle gambe dei due, mentre l’occhio dello spettatore a quel punto è concentrato sulla porta, terrorizzato all’idea che possa succedere qualcosa. Sulla carta è un’ottima scelta, ma, più che scardinare le regole della grammatica registica, sembra piuttosto che Schirmer si sia limitato a poggiare a terra la macchina da presa e si sia poi dimenticato di essa.
La messa in scena complessiva, inoltre, viene ancor più fiaccata dalla presenza dei due ragazzi, che purtroppo non sempre si dimostrano all’altezza delle scene concepite dal regista; se infatti possiamo osservare uno sguardo particolarmente morboso nelle sequenze che narrano le torture e gli abusi sessuali – forse anche troppo e spesso arrivano ad infastidire – dall’altra parte c’è una reazione piuttosto sottotono da parte di entrambi che rovinano l’atmosfera. In tal senso, infatti, l’unico vero gioiello del film sembra essere Arthur Cullipher – interprete del clown – che ha appreso molto dalla scuola horror e regala una performance sopra le righe ma sempre perfettamente in accordo con il tono del film.
Dopo esserci concentrati sulla messa in scena, passiamo alla sceneggiatura, è forse l’unico aspetto che presenta in egual misura debolezze e punti di forza. In particolare tre scene presentano delle ingenuità: la prima riguarda la pistola di PJ, che non ha alcun motivo per possederne una; la scusa che l’America sia ormai vista come la patria delle armi, è più un fiacco luogo comune e non un valido escamotage narrativo. Secondariamente una delle scene finali mostra un pentito Charlie – il servo del clown – che aiuta Mary e PJ ad uscire dall’incubo che hanno vissuto; nonostante possa essere giustificato pensando che anche lui, essendo considerato uno schiavo, ha solo atteso la giusta occasione per redimersi, è evidente nel corso del film che al servo è stato fatto un lavaggio del cervello e che prova un certo piacere nel torturare i ragazzi. Perché, dunque, riscattarsi così? Non lo sapremo mai perché il film porta fuori dalla scena il povero Charlie prima che possa essere data una valida spiegazione.
In ultima battuta è facile notare che, in una delle sequenze iniziali, Mary si sveglia e trova il clown che trascina il corpo di PJ in un’altra stanza, ha la maniglia della porta di casa in mano ed è pronta ad uscire. Dopo i primi dubbi, siamo subito portati a pensare che il torturatore ha sicuramente un aiutante e ha il controllo della situazione. Una volta entrati nella stanza dove il Clown trascina PJ, ecco che nascosto dietro la porta spalancata troviamo proprio Charlie, il servo di cui sopra. Se però lui è rimasto lì nascosto tutto il tempo, effettivamente Mary aveva l’opportunità di fuggire illesa dalla casa – sebbene siamo portati a giustificare la scelta dicendoci che non sarebbe mai scappata senza PJ.
Nonostante tutto, però, queste pecche riescono a non pesare mortalmente sulla sceneggiatura e possiamo ancora goderne senza troppi problemi. Anzi, le influenze ravvisabili nel film – in tutto ciò che di buono ha – sono tra i film più acclamati dal pubblico; partendo dal concetto di horror che ha alimentato Ghostland di Pascal Laungier, pur aggiungendone le influenze che sembrano più tipicamente alla Hostel di Eli Roth.
Dal primo The Badman ruba l’ossatura del film, con l’introduzione in casa dei seviziatori – uno degli incubi peggiori dell’uomo. Tuttavia nel film qui preso in esame la motivazione è del tutto diversa e alla semplice follia umana si sostituisce qualcosa di gran lunga più pesante, il traffico di schiavi sessuali.
In Hostel avviene più o meno la stessa cosa e troviamo un club d’élite dove i membri pagano per poter fare ciò che vogliono delle persone rapite; nel film di Roth questo riguardava solo la sfera della tortura, mentre in The Badman, Schirmer rende la visione ancora più morbosa trascendendo anche nella violenza sessuale. Si tratta, comunque, di punti di riferimento importanti, amati dal pubblico medio – per cui la maggior parte delle scelte, come abbiamo visto, possono risultare vincenti. Purtroppo, nonostante gli ottimi spunti narrativi e una scrittura che, tutto sommato, può risultare efficace, la composizione generale del film lascia molto a desiderare ed è difficile andare fino in fondo alla storia senza provare un certo distacco da essa – che rappresenta il fallimento stesso di un film.
Claudia Anania
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THE BADMAN
Regia: Scott Schirmer
Con: Ellie Church, Arthur Cullipher, Jason Crowe, Dave Parker, David Hancock
Sceneggiatura: Scott Schirmer
Produzione: Chameleon Arts Entertainment
Distribuzione: TetroVideo
Anno: 2018