Mara Paladini è una donna che, dopo aver scontato una pena all’interno di una struttura psichiatrico-giudiziaria per il tentato omicidio del marito e dei due figli, sta provando a costruirsi una nuova quotidianità, per quanto alterata da un senso di colpa che ormai occupa gran parte della sua mente e del suo cuore. Mara, che nella vita precedente all’incarcerazione e alla terapia si chiamava Mariele Pirovano, soffre della sindrome di Münchhausen per procura. Fa ammalare appositamente chi ama davvero, grazie a piccole dosi di veleno che lei stessa distilla da piante che coltiva in giardino. Lo fa per poi prendersi cura di loro, per guarire i suoi cari e sentirsi davvero utile. Purtroppo l’ultima volta che ha fatto questo alla sua famiglia, qualcosa non è andata come previsto. Mariele riesce a salvare marito e figli solo chiamando i soccorsi e inizia il suo percorso di allontanamento dalla vita che aveva vissuto fino a quel momento: denunce, processo, rinuncia agli affetti, detenzione e cura. Ma quando tutto questo finisce – quando Mariele è diventata Mara – non si sente ancora guarita. La donna sa di essere ancora un pericolo per chi potrebbe viverle accanto.
Rimandata per forza nel mondo esterno, a Mara non resta che seppellirsi all’interno del nuovo appartamento, facendo in modo di avere il minimo dello spazio vitale. Rimpicciolisce la sua casa e la trasforma in una nuova cella, circondandosi di scatole bianche che contengono l’intera vita che ha dovuto abbandonare. Oggetti e ricordi. In quelle scatole, dentro quella che lei chiama la Torre, dovrebbe essere seppellita Mariele, ma la donna sa che l’avvelenatrice compulsiva non è morta, né riposta in un contenitore di cartone. Mara e Mariele sono ancora la stessa persona, e la nuova routine, le regole autoimposte, un lavoro pieno di automatismi e lo spazio mortificante sono le uniche cose che possono riuscire a trattenerla fra quelle mura. Un meccanismo monocorde ma ben oliato, che avrebbe continuato a funzionare, se non si fosse aperta una breccia all’interno di quella torre d’avorio.
Una piccola macchia di umidità sul soffitto la costringe ad uscire dalla sua prigione autoimposta per andare ad avvertire il vicino, al piano di sopra. Un’azione ordinaria che, però, la catapulta all’interno di una scena del delitto che sembra arrivare direttamente dal suo passato. La paura spinge Mara a fuggire, per cercare la verità e provare a capire chi stia cercando di riportare Mariele a galla per incastrarla.
La torre d’avorio è uno dei più bei thriller di Paola Barbato, lo scriviamo subito. L’autrice firma una storia densa di sofferenza, errori, smarrimenti e perdite. Una storia di donne imperfette e tanto reali che cercano un po’ di sicurezza nella formazione di uno strano gruppo, poi sono costrette a separarsi, poi ancora una volta a riunirsi per vivere un incubo che mescola passato e presente, declinando ricordi e azioni in un’unica chiave: la morte.
La fuga di Mara, infatti, cerca di trovare sosta e conforto presso altre donne che hanno cercato di cancellare il proprio passato shoccante attraverso le cure del suo stesso istituto. Donne che, nella sofferenza, erano riuscite a creare una sorta di sorellanza che partiva dall’accettazione degli sbagli di ognuna. Amiche che ora erano costrette a tornare a convivere per provare a sorreggersi un’ultima volta, ad arginare ognuna il mostro dell’altra, cercando di salvare Mara da chi vuole inchiodarla con la forza al suo passato. Oltre al passato e ai sentimenti che provano l’una per l’altra, c’è un’altra importante cosa a legarle: il fatto di non sentirsi guarite.
Paola Barbato ci conduce gradualmente all’interno di una fuga folle e carica di tensione, ma il viaggio che ci propone ne La torre d’avorio è a doppio binario, come spesso accade nei suoi romanzi. Se il primo è il racconto del presente, il secondo appartiene ai ricordi: al passato di Mariele, ma mano a mano che la storia on the road porta la protagonista ad avvicinarsi a una delle sue consorelle, la seconda rotaia può ospitare anche il passato di una delle altre co-protagoniste. I loro errori ma, ancora di più, le motivazioni che le hanno portato al crollo.
La torre d’avorio riesce a catturare immediatamente il lettore in una morsa che difficilmente gli permetterà di abbandonare presto la lettura [e che poi rimarrà a stringere cuore e testa ancora per un bel po’]. La corsa delle donne si fa sempre più rocambolesca, il pericolo ignoto che le insegue via via più concreto. Le protagoniste sanno di non potersi fidare completamente di sé stesse, né l’una dell’altra. C’è sempre un angolo oscuro e Paola Barbato non lo illumina, ma ci cala all’interno dell’oscurità raccontandola con uno stile pienamente cosciente ma anche sottile, che sa dove e quando colpire ma non nega il piacere dell’intrattenimento, del colpo di scena.
Paola Barbato si interroga e ci fa interrogare sulla natura dell’animo umano, sulle sofferenze psichiatriche e su quanto sia facile compiere un passo di troppo fra le ombre della nostra mente, per ritrovarsi all’interno di un mondo di cui non si possono conoscere in anticipo le regole.
Un thriller che riesce ad affascinare, commuovere e spaventare.
Luca Ruocco
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LA TORRE D’AVORIO
Autori: Paola Barbato
Editore: Neri Pozza [www.neripozza.it]
Pagine: 416
Illustrazioni/Foto: No
Costo: 20,00 euro